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Il Genio e l'Architetto

Serpeggiante itinerario storico-artistico nella Roma Barocca attraverso i capolavori e le dispute fra Bernini e Borromini, con significative considerazioni a favore del Borromini

Introduzione

Parte Prima - Salendo il pendio

Parte Terza - Giù per i vicoli e su per le torri

Parte Quarta - L'inganno dei sensi

Parte Quinta - Il trionfo del conflitto

Parte seconda – Sul colle, le ellissi

Dove il talento mistico del Borromini ha modo di esprimersi alle vette più sublimi e dove il talento pratico del Bernini ha modo di sfruttare un’idea per farne un capolavoro simile e opposto

di Alessandro Borgogno - 1/6/2009

Seguendo la via dell’acqua, che per Roma è un autentico sistema venoso e arterioso che la fa pulsare e la tiene in vita, dalla fontana del Mosè seguendo via XX Settembre verso il palazzo del Quirinale si arriva al fatidico incrocio delle Quattro Fontane. Fatidico per molti motivi.

Anzitutto è un punto di estrema sopraelevazione, al di sotto del quale i due rami della via omonima più che scendere precipitano, aprendo due prospettive vertiginose che si concludono una a Nord con l’obelisco di Piazza di Spagna e l’altra a Sud con un altro obelisco, quello di Santa Maria Maggiore. Sublime visione urbanistica del riassetto cittadino voluto da Sisto V nel ‘500, l’incrocio è occupato ai quattro angoli dalle fontane che gli danno il nome e che simboleggiano, con le forme scolpite nei loro marmi a riempire gli angoli dei quattro palazzi, due fiumi di Roma (il Tevere e l’Aniene, ma secondo alcune interpretazioni l’altro fiume è l’Arno) e due virtù (Fortezza e Fedeltà, rappresentate dalle dee Diana e Giunone).

E’ qui che nel 1634 viene affidato a Francesco Borromini il primo lavoro importante da realizzare in completa autonomia: costruzione di chiesa e convento di San Carlo per i padri Trinitari Scalzi di Spagna, proprio ad uno degli angoli dell’incrocio, che da quel momento in poi si chiamerà San Carlo alle Quattro fontane, o San Carlino per via delle ridotte dimensioni.

Lo spazio a disposizione infatti è esiguo (qualcuno poi calcolerà che tutta la chiesa e l’annesso convento occupano quanto uno dei quattro pilastri che sorreggono la cupola di San Pietro), e messo di fronte a questo problema il Borromini fa quello che meglio gli riesce: inventa.

E quando un genio inventa, ciò che ne vien fuori non può essere altro che un capolavoro.

Organizza il convento intorno al chiostro, smussando gli angoli e ricavando ambienti con un attento e misurato gioco di pieni e vuoti. Nel piccolissimo spazio rimasto incastona la chiesa come uno zaffiro, dandole la forma che caratterizzerà non solo il suo gioiello, ma gran parte della forma architettonica barocca: l’ellisse.

La pianta ha un modulo ellittico, la cupola è ellittica, e nell’alzarla fa viaggiare lungo le pareti linee curve e convesse, così da accompagnare sempre ogni angolo, dando continuità e forma ad uno spazio vuoto che non ha angoli né anfratti. Non è né croce latina né greca, niente navata e niente cappelle. Uno spazio unico dove la luce però vibra e scorre disegnando forme e percorsi, aprendo la vista verso il cielo. E il cielo è la cupola, anch’essa di forma ellittica, quasi un mezzo guscio di uovo, dove però Borromini disegna cassettoni di stucco a grandezza decrescente, giocando ancora una volta con la prospettiva e ingannando così lo sguardo di chi alza la testa e si illude che sia molto più alta di quanto non sia in realtà. Ulteriore e sublime trovata, copre con un cornicione anch’esso ellittico il punto di sostegno della cupola, nascondendone così alla vista il suo poggiare sulla struttura della chiesa. In questo modo tutta la cupola sembra essere sospesa, e senza peso, e diventa davvero il “cielo” verso cui il fedele può alzare lo sguardo e cercare conforto.

Ma il Borromini, certo non il primo in assoluto ad usare l’ellisse in architettura ma di sicuro il primo a trasformarla da forma in concetto, non si ferma qui. Affiancando, dal punto vista della pianta, la chiesa al chiostro ottiene obbligatoriamente (quasi ne fosse illusoriamente costretto) uno sviluppo della chiesa nel senso dell’asse più lungo dell’ellisse, collocandone ingresso e altare sugli estremi corti, stringendo quindi i lati e prolungandone la prospettiva. Abbinato questo all’uso delle curve concave e convesse che si susseguono fino al cielo della cupola, l’effetto al momento dell’entrata è sorprendente. Appena varcata la soglia, la chiesa si raccoglie come un enorme uovo sul visitatore, dando un senso concreto e compiuto al concetto stesso di “raccoglimento”, esplicitamente rivolto a chi entra in chiesa per pregare e meditare. Il senso di protezione materna che l’involucro sacro creato dal Borromini trasmette è evidentemente il risultato di una immensa riproduzione, non solo concettuale ma anche fisica, del ventre materno e della sua ovattata realtà quasi ultraterrena, o meglio sarebbe dire pre-terrena. Le forme arrotondate, prive di quasi ogni orpello o decorazione e rese semplici e lineari dai soli stucchi monocromatici, regalano anche il senso di distanza e di isolamento acustico che si può constatare clamorosamente appena si rimette piede fuori dalla chiesa, poiché il portone di ingresso è praticamente sulla strada, il traffico è chiassoso e rombante sempre e ad ogni ora e per di più in corrispondenza di un semaforo, eppure fino ad un attimo prima, nell’architettonico ventre ovale di madre chiesa, non ve ne era traccia. Solo silenzio e pensieri sospesi in aria.

San Carlino, oltre ad essere la meraviglia che abbiamo appena tentato di descrivere, gode anche del privilegio unico di essere insieme la prima e l’ultima opera del grande architetto. Molti anni dopo infatti, il Borromini progettò la sua facciata e diede inizio ai lavori, che terminarono poi seguendo i suoi disegni subito dopo la sua morte, ed è un gioiello al pari dell’interno. Si stringe, incredibilmente sottile, all’angolo dell’incrocio delle due strette vie, e se la si potesse vedere disegnata apparirebbe alta e stretta, perfino sproporzionata. L’ovvio motivo è che è stata proprio concepita per essere vista così, dal basso verso l’alto in uno spazio troppo stretto per guardarla da lontano. Sulla sua superficie verticale ondeggiano le curve concave e convesse che idealmente riportano all’esterno la risacca del liquido amniotico che ne riempie l’interno, con una coerenza di forme e di proporzioni di sublime eleganza.

La sfida del Bernini, o il saccheggio, arrivano poco più avanti, un centinaio di metri lungo la stessa via XX Settembre che diventa via del Quirinale. E’ Sant’Andrea al Quirinale, la piccola idea geniale del Borromini che diventa spettacolo e splendore estetico. Il piccolo e prezioso lavoro artigiano che diventa industria. La meditazione su se stessi e sulla propria fede che diventa dimostrazione di potenza divina e di potere temporale sugli uomini e sulle loro miserie.

Il Bernini, come spesso accadeva, ricevette l’incarico della costruzione della piccola chiesa gesuita da un committente illustre, il cardinale Camillo Pamphili, nipote del nuovo papa Innocenzo X. Conosce bene l’opera del suo grande rivale e quella piccola chiesa sulla stessa via nella quale più di venti anni prima egli aveva concretizzato l’idea di chiesa e di preghiera in una cavità ellittica. Senza starci tanto a pensare, prende l’idea come modello. Naturalmente non è un qualsiasi ladro di idee, e, se pure di furto si tratta, è pur sempre un furto fra menti e talenti geniali. Appena appropriatosi dell’idea, infatti, ne ribalta immediatamente il contenuto concettuale. Tutto ciò che nella chiesa di San Carlo è compressione, raccoglimento, abbraccio, nella chiesa di Sant’Andrea diventa liberazione, espansione, apertura. Le ellissi cominciano all’esterno, in una riproduzione in miniatura dell’idea del colonnato di San Pietro, per abbracciare chi si avvicina alla chiesa e insieme rendere più ampio l’angusto spazio davanti alla facciata. Nell’interno, l’idea del Borromini è letteralmente ribaltata: l’ellisse che ne rappresenta la pianta è posizionata trasversalmente all’ingresso. Così l’effetto all’entrata è esattamente l’opposto di quello di San Carlo. Lo spazio si espande a destra e a sinistra, lo sguardo inizia immediatamente a viaggiare lungo le pareti e verso la volta. La Chiesa si presenta ampia, grande, potente, in grado di dilatare lo spazio intorno al visitatore.

Inoltre, tanto là gli interni erano poveri e fatti di sole forme tanto qui sono magnificenti e traboccanti di tesori. Stucchi colorati e preziosi, rifiniture d’oro, luce sfolgorante che entra da mille aperture, marmi rarissimi che rivestono pareti e si alzano in colonne screziate.

Mai come nell’inevitabile confronto fra questi due immensi capolavori, così vicini anche fisicamente, è possibile vedere solidificarsi e farsi materia il contrasto e le profonde differenze fra i due artisti che stiamo cercando di seguire.

San Carlo e Sant’Andrea ci dicono infatti altre nuove cose sui nostri due protagonisti. Borromini è ascetico, lavora bene per ordini religiosi minori e cerca nella sua architettura la migliore espressione del dialogo solitario con Dio. Bernini è realista, la sua architettura deve servire a stupire i fedeli, ad intimorirli e a guidarli, a testimoniare in ogni sua espressione la potenza e la grandezza di Dio, non la sua compassione. Borromini con la sua abilità è capace di trarre grandi effetti da materiali poveri e con mezzi limitati. Bernini sa usare nel modo migliore i grandi mezzi a sua disposizione, ed è capace di sfruttare un’idea ad un livello estetico (oggi diremmo anche commerciale) superiore, estendendola alla più vasta platea possibile.

Nella più ampia e brutale sintesi, che non ci sottraiamo nel definire assai personale, possiamo riassumere lo scarto fra i due nella profonda differenza che regola il loro committente ultimo, quello che nel loro cuore e nel loro animo è l’ultimo destinatario della loro arte sublime: l’architettura del Borromini è al servizio di Dio, quella del Bernini è al servizio della Chiesa.

 

Un contrasto così profondo era destinato ad essere irrisolto e irrisolvibile, ma per la fortuna di noi tutti non sfociò nell’annullamento dei due talenti né nel soccombere di uno dei due, bensì nell’esplosione delle migliori capacità di entrambi, riempiendo così Roma e gli occhi del mondo intero di meraviglie mai più eguagliate.

Scendendo dal Quirinale ed inoltrandoci verso il cuore pulsante di Roma Antica, ne incontreremo ancora parecchie.

 

F. Borromini, San Carlo alle Quattro Fontane, 1638-1641; facciata  1664-1667 - Roma, via Quattro Fontane

 G. L. Bernini, Sant’Andrea al Quirinale, 1658-1678 - Roma, via Quattro Fontane

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