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Il Genio e l'Architetto Serpeggiante itinerario storico-artistico nella Roma Barocca attraverso i capolavori e le dispute fra Bernini e Borromini, con significative considerazioni a favore del Borromini |
Parte Seconda - Sul colle, le ellissi Parte Terza - Giù per i vicoli e su per le torri |
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Parte prima – Salendo il pendio Dove si scoprono le diverse concezioni del mondo dei due architetti e il talento di uno dei due per le forme nel marmo, dell’altro per le curve nello spazio. di Alessandro Borgogno - 1/6/2009 Palazzo Barberini domina il fianco della salita delle Quattro fontane, che partendo da Piazza Barberini si inerpica verso il quadrivio con le omonime fonti scolpite che domina il colle del Quirinale. Nella Piazza in basso la prima e più riuscita arte del Bernini, che è e rimarrà sempre la scultura, dà già una prova di sé che stupisce ancora oggi il mondo. La fontana del Tritone, al centro esatto della grande piazza, è uno dei suoi massimi capolavori. Un busto di una bellezza scultorea, è il caso di dirlo, sul quale scorre prepotente e continua l’acqua di Roma, quella che arriva dagli acquedotti e sgorga al centro della città attraverso le mille aperture che mille scultori, e lui più di ogni altro, le hanno modellato attorno. La fontana fu commissionata e realizzata proprio alla celebrazione del termine dei lavori del palazzo, e ne simboleggia in qualche modo il trionfo barocco, e il suo richiamo pubblico. Quasi contemporanea, sempre in onore del papa Urbano VIII, la Fontana delle Api che fa sgorgare acqua ad uno degli angoli della piazza. Quanto il tritone è sontuoso e perfino arrogante, così questa piccola fontana è un gioiello di misura e fantasia. E’ una enorme conchiglia aperta all’interno della quale si raccoglie l’acqua, e sul suo bordo sono ad abbeverarsi delle api, simbolo ricorrente della famiglia Barberini. Cercate in giro per Roma, e troverete api scolpite su palazzi, chiese, finestre e fontane. Torniamo quindi al palazzo che vide l’incontro fra i due grandi del seicento, un po’ arretrato rispetto alla strada, circondato dai giardini ed imponente e leggero come il Maderno, il suo ideatore, l’ha voluto. Sulla facciata è già possibile vedere una delle invenzioni tipiche e ripetute del barocco. Le finestre del piano più alto sono incorniciate da una finta prospettiva in bassorilievo che le pone illusoriamente più in profondità di quanto siano, aggiungendo decorazione e leggerezza all’intero corpo del palazzo. E’ un trucco che ritroveremo in altri luoghi, approfondito ed ampliato fino alle conseguenze più estreme. Straordinario, sempre dal progetto originale del Maderno, l’atrio interno a forma di Ninfeo che fa da raccordo fra il palazzo e i giardini retrostanti, incrocio di scale, di aperture e di tagli di luce che simboleggiano e accompagnano il passaggio fra l’interno e l’esterno, fra le forme umane e quelle naturali. Impossibile non citare, già che passiamo di qui, la straordinaria Galleria Nazionale d’Arte Antica ospitata al primo piano, dove si possono ammirare alcuni scioccanti capolavori del Caravaggio (primo fra tutti il violento e sublime Giuditta e Oloferne), tele di Raffaello e Tiziano, e l’immensa rappresentazione barocca completa di illusioni pittoriche e prospettiche di Pietro da Cortona che affresca il soffitto del salone, sobriamente e modestamente titolata Il trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di papa Urbano VIII Barberini. Torniamo ai nostri due eroi però, e cerchiamo proprio qui, in questo cantiere che li vide uno alla direzione dei lavori e l’altro al posto di primo assistente, il primo segnale di una concezione artistica delle forme e dello spazio antitetica e divergente. Già da qui, con molta suggestione e altrettanta leggenda, quel che resta dopo aver tolto tutti gli orpelli è pur sempre ciò che abbiamo inequivocabilmente davanti ai nostri occhi. Le due scale interne, a destra e a sinistra del porticato. Una del Bernini, una del Borromini. Una quadrata, l’altra ellittica. Una monumentale, che allarga lo spazio e le misure con grandi angoli e forti colonne, l’altra raccolta e misurata, che sale ad elica accompagnando le forme in un tripudio di curve e ammorbidendo l’idea stessa di salita. Basterebbe solo questo a misurare le diversità e al tempo stesso le capacità di entrambi. E’ da qui che probabilmente si può cogliere il seme dei due opposti approcci allo spazio architettonico la cui sintesi darà forma ai maggiori capolavori del barocco romano. Borromini è un inventore, amante delle linee curve come lo sarà secoli dopo Gaudì, manipolatore dello spazio in contrazioni e dilatazioni scandite dagli stucchi e dalle cornici. Bernini è un costruttore, monumentale nelle sue idee e nella capacità di metterle in pratica contro ogni ostacolo. Borromini è un ricercatore, sempre pronto a sperimentare e a dedicarsi al nuovo, anche con pochi mezzi. Bernini è un pragmatico, la sua arte e la sua capacità sono sempre al servizio di un obiettivo e di un risultato precisamente misurabili ed evidenti a tutti. Borromini è prima di tutto uno scenografo, il suo approccio è manipolare lo spazio, adattarlo, modellarlo e ricavarne ciò che la sua mente gli suggerisce. Bernini è prima di tutto uno scultore, il suo approccio è riempire lo spazio, o togliere materia per far emergere le forme. Fuori da Palazzo Barberini dobbiamo risalire il colle fino all’incrocio delle Quattro Fontane, ma poiché ciò che troveremo lì dovrà occupare una intera tappa, segnaliamo invece, essendo sempre in zona e poco lontano, l’opera forse più emblematica del Bernini, dimostrazione evidente del suo essere grandissimo scultore e forse il suo primo vero passaggio dalla concezione plastica dello spazio tipica della scultura verso la concezione teatrale propria dell’architettura. Lungo via XX Settembre, sempre lungo il crinale del colle Quirinale ma tornando verso Porta Pia, proprio di fronte alla fontana del Mosè, mostra dell’acqua che trasportata attraverso l’acquedotto Alessandrino dalle campagne romane sgorgava nel punto più alto per poi ridiscendere in mille rivoli a dare linfa a tutta la città, c’è uno dei capolavori del Barocco sacro: la chiesa di Santa Maria della Vittoria. E’ anch’essa del Maderno, che ci sapeva fare, e il suo interno è quanto di più emblematico si possa immaginare per rappresentare l’arte seicentesca, magnificente di ori e di stucchi, di illusioni e di luci colorate, di sublimazione eterna e multiforme del terrore della morte che sovrastava il secolo. Il capolavoro del Bernini è sull’altare del transetto sinistro. E’ l’Estasi di Santa Teresa, scultura magnificamente complessa che si fonde con la scenografia e con le forme architettoniche delle volte e delle lanterne da dove la luce dorata entra a trafiggere e a sceneggiare in eterno l’irruzione dell’illuminazione divina. La trasposizione scultorea che il Bernini fa del celebre e ambiguo passo dell’autobiografia della Santa, laddove la descrizione dettagliata e potente della possessione divina da parte dell’angelo non nasconde la natura fisica e terrena del dolore e del piacere provati fino a sfiorare la blasfemia, riporta in modo fedele non solo l’aspetto metafisico dell’atto, ma anche le sue componenti più corporee e materiali. Il corpo della santa è abbandonato sul drappeggio della sua stessa veste, le cui spirali tormentate aumentano la drammaticità dell’evento fino a renderlo concreto. L’angelo, che sovrasta la santa e impugna il “dardo infuocato” pronto a trafiggerla, con l’altra mano, assai impudicamente, le sta scostando le vesti per colpirla meglio, nel punto giusto. Il volto della Santa, infine, tradisce senza ombra di pudore l’abbandono ad un piacere per nulla intellettuale, bensì estremamente concreto e tangibile. Manipolatore e trasformatore del marmo senza eguali, il Bernini raggiunge qui probabilmente il punto più alto della sua produzione scultorea, così come ancor più giovane aveva fatto con l’Apollo e Dafne (oggi alla galleria Borghese) tanto incredibile nella sua leggerezza e nelle soluzioni di forma e sostegno da far dire al suo stesso autore, molti anni più tardi: "Oh quanto poco profitto ho fatto io nell'arte della scultura in un sì lungo corso di anni, mentre io conosco che da fanciullo maneggiavo il marmo in questo modo!" Ciò che poi, nell’Estasi di Santa Maria della Vittoria, sconfina dall’arte marmorea per approdare ad altri e più ampi orizzonti, è la collocazione e ciò che Bernini le costruisce intorno. L’esperienza di allestimenti teatrali non gli mancava, e così, ciò che riproduce nel transetto, altro non è che una rappresentazione in piena regola, dove ogni elemento è scena, proscenio, palchi o platea. Noi, naturalmente siamo in platea, e facciamo parte di tutta la rappresentazione, elementi necessari e non secondari. Quando voltiamo le spalle e ci avviamo all’uscita lungo la navata centrale, tutto ciò che abbiamo visto potrebbe svanire senza lasciare traccia, tanto la nostra stessa presenza era parte del tutto. Usciamo alla luce, e torniamo verso l’incrocio delle Quattro Fontane. Ci aspettano due delle chiese più straordinarie di Roma.
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G. L. Bernini, Fontana Del Tritone, 1642-1643 - Roma, Piazza Barberini G. L. Bernini, Fontana delle Api, 1644 – Roma, Piazza Barberini C. Maderno, G. L. Bernini, F. Borromini, Palazzo Barberini, 1625-1633 - Roma, via Quattro Fontane G. Fontana, Fontana del Mosè, 1585- 1587 - Roma, via XX Settembre C. Maderno, Santa Maria della Vittoria, 1608-1620 - Roma, via XX Settembre G. L. Bernini, Estasi di Santa Teresa, 1647-1652 – in Santa Maria della Vittoria G. L. Bernini, Apollo e Dafne, 1621-1623 – Roma, Galleria Borghese |