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Biciclette rotte

WAITS #2

di Beppe Giuliano - 5/10/2008

Intro

WAITS #1 - Primo interludio

WAITS #2 - Secondo interludio

WAITS XXI

La seconda carriera inizia con ‘Swordfishtrombones’ che la Asylum rifiuta di pubblicare, si dice dopo l’ascolto di soli tre brani.

Lo incide un Waits indefinibile, che shakera Kurt Weill, Captain Beefheart, Nino Rota, la musica industriale, l’arenbì... Che scarnifica liriche e suoni. Che, indubbiamente, spiazza.

I testi perdono in parte la caratteristica di scenografie di film, onirici, immaginifici, per rarefarsi in istantanee in bianco e nero scattate sotto la pioggia battente.

Frank’s Wild Years (che ritroveremo, perché darà il titolo a un suo lavoro teatrale e a un suo disco) narra di Frank che, alla fine dei suoi anni selvaggi, fa un mutuo e si sistema lungo la strada di San Fernando con la moglie. Lei ha “un piccolo chihuahua chiamato Carlos / che aveva una specie di rogna / ed era completamente cieco.” (“Ed erano proprio felici.”) Una sera lui, di ritorno, si ferma alla Shell, compera una tanica di benzina, appicca un bel fuoco alla casa e la guarda “bruciare tutta rossa e arancione come una zucca di Halloween. Frank si sintonizzò su una stazione fm / imboccò la Hollywood Freeway / diretto a nord. Non aveva mai potuto sopportare quel cane.”

Un disco che ascoltato oggi è ancora meglio di allora, popolato di marinai col permesso di sbarco (Shore Leave), del macellaio Dave, di una calibro 30 a sei colpi con i suoi 16 proiettili (16 Shells from a Thirty-Ought-Six) in una città senza brindisi (Town With No Cheer), con un ragazzo inzuppato di gin (Gin Soaked Boy), le cose di un soldato (Soldier's Things) e, ovviamente, un mare di guai (Trouble's Braids).

Il successivo ‘Rain Dogs’ è, probabilmente, un capolavoro. Ben 19 canzoni di altissimo standard, suonate con “corni, banjo, marimbe, harmonium, accordions, farfisa, vasi d’argilla(?), seghetti ad arco, violini, armoniche, la chitarra di Keith Richards…”, come scrive Massimo Cotto. Da brani più usuali (se si può dire, per lui) come Time e la Downtown Train che è una delle sue cose più note (anche per un’edulcorata cover che ebbe successo), alla struggente Blind Love, ai ritmini sghembi dell’ipnotica Clap Hands, alla tranche de vie di 9th and hennepin (“…E ho visto tutto questo attraverso i finestrini ingialliti di un treno della sera”), fino al funerale finale a-la Nouvelle Orleans di Anywhere I Lay My Hat (“Ogni posto in cui poso il cappello è casa mia”).

Passando per la macabra, brechtiana sfilata di improbabili zii di Cemetery Polka: Uncle Vernon “è uno dei più conosciuti giù al bordello / suona la fisarmonica per mr.Weiss”; Auntie Mame “è diventata matta – vive nell’ingresso di un vecchio albergo / la radio trasmette l’opera / e lei ripete a tutti va’ all’inferno”; Uncle Violet “è stato un pilota (in Francia, nella guerra) – dicono se la faccia sempre nelle mutande, ormai”; Uncle Bill “non farà mai testamento / e il tumore è grosso come un uovo”; Uncle Phil “non può vivere senza le sue pillole / ha l’enfisema ed è quasi cieco / dobbiamo scoprire dove ha nascosto i soldi…

Jockey Full of Bourbon accompagnerà i titoli di testa di daunbailò, il film di Jarmusch che Waits interpreta insieme a Benigni (e a John Lurie). Nella parte di Zack, dj fallito. Nasce un’amicizia con l’attore italiano. Waits sovente lo sveglia nel cuore della notte per farsi cantare Prendi questa mano zingara. Per intercessione di Benigni lui viene a ritirare il Premio Tenco. Perde le valigie. Ascolta gli intimiditi Ruggeri e Locasciulli suonare Nella memoria, cover di Foreign Affair, e li rinfranca ruggendo “well done, well done”. Suona un concerto straordinario, acustico, accompagnato dal cognato Greg Cohen, contrabbassista. Compera una fisarmonica artigianale. Poi torna a casa da Kathleen.

Waits interpreta diversi film, e scrive opere teatrali. Colonna sonora di una di esse è il successivo ‘Franks Wild Years’, “Un Operachi Romantico in Two Acts” (?!?), per dirla con lui. Un pugno di belle canzoni, fra cui la sua più romantica in assoluto, forse, Innocent when you dream (anche in versione 78 giri – sic). Se per caso vivete in un polmone artificiale, e ricevete una telefonata da Istanbul (Telephone Call From Istanbul) che vi avverte che la vostra baby tornerà a casa oggi, ricordate: “Mai fidarsi di un uomo che indossa un vestito trench blu / mai guidare un’automobile se siete morti”. Tenendo pure a mente che conviene sempre confidare nel passato: “Oggi è cieli grigi / domani sono lacrime / dovrai aspettare finché ieri non sarà qui” (Yesterday Is Here).

Da allora la sua attività discografica si fa sparsa.

Esce nel 1988 un live (con video), ‘Big Time’. Un disco per qualche verso minore (scopro addolorato che il cd contiene molte tracce in più dell’ellepì che all’epoca comprai) anche se ben suonato, con versioni asciutte di brani dai tre precedenti (del primo Waits torna solo Red Shoes) e due inediti molto scarni (buoni, soprattutto Strange Weather – il tempo è sempre strano, attorno a Waits, vero?).

Nel ’91 esce la colonna sonora quasi interamente strumentale di ‘Night on Earth’, solo per aficionados, proprio come ‘The Black Rider’ del ’93, basato sull’opera teatrale di Robert Wilson and William S. Burroughs.

Escono nel ’91-’92 due ‘Early Years’, con incisioni precedenti il debutto discografico.

Non citerò le varie altre raccolte, uscite nel corso del tempo.

Nel 1992 dà alle stampe ‘Bone Machine’, disco estremo. “Noi tutti non saremo altro che polvere nella terra”, in Dirt in the ground, sintetizza lo spirito dell’intero lavoro, agghiacciato (e agghiacciante), malato, perverso, violento, freddo e crudo. I Don't Wanna Grow Up la canta da noi la splendida Mannoia (con Ruggeri): Non voglio crescere più.

Trascorrono sette anni. Poi esce, non per una major, su etichetta Epitaph, ‘Mule Variations’. Sedici canzoni in equilibrio (precario, ovviamente) fra elettricità e ballate. Tutte a firma Waits-Brennan, e lei co-produce pure. Da molti giudicato un grandissimo disco. A mio parere un buon lavoro, lontano dalle vette delle migliori cose del primo periodo, o di 'Rain Dogs'. Anche perché:

- il passaggio dall’ellepì al cidì ha aggiunto (in modo abbastanza inutile, quasi sempre) canzoni ai dischi (una volta erano una diecina, adesso sovente ce n’è qualcuna di troppo);

- Tom da Franks Wild Years in avanti sembra cantare sempre la medesima canzone.

La foto di copertina è assolutamente meravigliosa. Raggelante. Un predicatore della bible-belt impazzito, un incubo che si manifesta all’improvviso in un campo di granturco rubando l’anima di chi non sa scappare abbastanza in fretta, forse The Misfit della Flannery O’Connor in persona (e Tom pubblicherà più avanti una canzone che si intitola proprio, come il racconto, A Good Man is Hard to Find).

Le foto di copertina dei suoi dischi sono sempre artwork notevoli.

SECONDO INTERLUDIO

Segnalerei questa descrizione di Massimo Cotto (cui si deve molta divulgazione su Waits, qui da noi): «L’ho conosciuto a Sanremo, nel 1986, durante il Premio Tenco. Timido come un bambino, sghembo come Henry Fonda in Furore di John Ford, asimmetrico come un uomo che non si cura di non avere un centro di gravità permanente...»

continua...

 

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