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Noi continuiamo a sperarci...

di Ilaria Scala - 25/7/2011

Caratteristica distintiva e al contempo più grosso limite de La versione di Barney – il film è il fatto che gli mancano le digressioni.

Ci si chiede che gusto ci provano, a Hollywood, a prendere un romanzo di grande successo e a farne un film snaturandolo completamente, cioè privandolo di quegli elementi senza i quali quel successo non l’avrebbe avuto.

Abbiamo scritto che il libro si caratterizzava per le digressioni – ridondanti, prolisse, a tratti anche fastidiose – e per il montaggio che scardinava la linearità cronologica della trama per costruire invece una storia ad incastri di scatole cinesi. Il montaggio!, la caratteristica fondante del linguaggio cinematografico, a cui sicuramente la scrittura di Richler deve tutto, anzi che deve averlo ispirato, ché un libro così, se non esistesse il cinema, non sarebbe stato mai scritto.

Ebbene, che fanno a Hollywood? Prendono il libro e lo stendono come un lenzuolo, e scrivono una sceneggiatura disciplinata, lineare, che ti racconta tutto per benino dall’inizio alla fine (sostituendo Parigi con Roma, forse per esigenze di produzione, ma tanto che importa, gli Americani mica sanno la differenza, è tutta Europa in fondo), con un paio di micragnosi flah-back giusto per dimostrare che con il montaggio narrativo ci sanno giocare un pochino anche loro.

Inoltre, ci tengono a starci nei 90 minuti, che sennò gli spettatori gli si ribellano al box-office. Perciò la sceneggiatura non la fanno solo disciplinata, la accelerano pure almeno a 4x, manco fosse una comica degli anni ’30, che non fai in tempo a veder comparire in scena uno dei personaggi principali che è già scomparso dopo due battute, con il risultato di scontentare tutti, chi ha letto il libro e chi no: chi ha letto il libro perché vede ridotto un personaggio importante da 100 pagine a mezzo fotogramma; chi non lo ha letto perché a quella velocità si fa fatica a capire il senso di quelle due battute, e della scena tutta.

Come se non bastasse, diciamocelo: non è certo la trama ad aver conquistato i lettori di tutto il mondo – "Che fine ha fatto l’amico scomparso subito dopo esser stato trovato a letto con la moglie del protagonista?" Non è la trama, relativamente banale, piuttosto sono i tic del personaggio, la sua umanità, i suoi vizi, il tempo incalcolabile che ci mette per arrivare al nocciolo della storia e per non arrivare neanche ad un barlume di soluzione, che una soluzione, lui, finché è in vita non riesce a trovarla.

Ebbene, che fanno a Hollywood? Strizzano i 40 anni di autobiografia in un unico attore (il malcapitato Paul Giamatti, non infame ma neanche particolarmente in parte), cambiandogli solo la lunghezza dei capelli e della barba per differenziarlo nelle varie età della vita; scelgono a casaccio altri attori più o meno scolastici (la più indovinata è forse Minnie Driver, l’attrice senza età; imperdonabile invece la totale assenza di fascino della Miriam di Rosamund Pike con un’improbabile parrucca rossa); pensano che basti piazzare in scena Dustin Hoffman per ottenere Il Personaggio, e così trascurano di imbastire la sceneggiatura per descrivere degnamente una delle figure più divertenti e interessanti del libro, quella del padre di Barney, poliziotto in pensione dissacrante sincero e generoso, che Hoffman tratteggia con impegno, e che sarebbe bastato uno sforzo di script davvero minimo per rendere indimenticabile.

Nessuno si aspetta che la “riduzione cinematografica” di un libro di quasi 500 pagine rispetti il plot in modo letterale, non semplifichi, non tagli qualche evento o personaggio. Ma sarebbe auspicabile che le semplificazioni non tradiscano in modo grossolano lo spirito del libro. Riesce di rado, lo sappiamo. Ma noi ci speriamo sempre. 

 

La versione di Barney, di R. J. Lewis
con P. Giamatti, D. Hoffman, M. Driver, R. Pike, R. Lefevre
USA 2011

 

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