film

 

Ci vuole una barca più grande…

Secondo ciclo immaginario dei film che cambiarono Hollywood (e il cinema intero)

di Alessandro Borgogno - 22/02/2009

Gioco irresistibile, quello cui ci chiama Beppe con il suo ciclo di 16 film fra quelli che cambiarono Hollywood negli anni '70.

Impossibile resistere, quindi, e inevitabile rispondere con un altrettanto personalissimo ciclo. Tematica simile, forse più orientata, sempre per idee personali, verso un fil rouge del tipo “i film di Hollywood che negli anni '70 cambiarono il cinema”. E naturalmente, tutto volontariamente e spudoratamente filtrato dalla percezione personale, per cui ancora meglio sarebbe “i film di Hollywood degli anni '70 che hanno cambiato la mia idea di cinema”.

Qualche titolo segnalato da Beppe sono costretto a riprenderlo anch’io, non si può prescindere.

Di sicuro a continuare questo gioco la cosa che fa più impressione è la quantità di titoli importanti, geniali, innovativi, potenti, coraggiosi, o semplicemente belli, concentrati in così pochi anni. Stiamo diventando vecchi?

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, 1971, Don Siegel. Il poliziesco non è mai più stato lo stesso. E ciò che allora venne scambiato per un messaggio reazionario (c’era anche quello, per carità, ma assai meno che in altri casi) oggi appare in tutti i suoi risvolti più puramente cinematografici.

La notte brava del soldato Johnatan, 1971, Don Siegel. Sempre nel 71, sempre dalla coppia Siegel - Eastwood, un film totalmente diverso, e un capolavoro noir travestito da film di guerra. Il capitano ferito che si illude di fare il gallo nel pollaio in un collegio femminile e finisce nel peggiore dei modi. Gioco sadico e malsano, falsità patriottiche, nessun personaggio risparmiato nella sua ambiguità e nella sua ferocia. Un gioiello indimenticabile. E, politicamente, smentita in contemporanea delle facili letture date negli stessi mesi a Callaghan. Dimostrazione di come regista ed attore fossero ben consapevoli e ben capaci di mettere in campo tematiche assai più ambigue e per nulla di facile soluzione.

Duel , 1971, Steven Spielberg. L’esordio folgorante dell’allora giovanissimo regista e poi eterno enfant prodige. Un esercizio di stile puramente hitchcockiano. Prima di diventare uno dei registi e produttori apparentemente più spendaccioni di Hollywood (ma quando si incassa regolarmente dieci volte tanto ci si può definire spendaccioni?), Spielberg tiene inchiodati per un’ora e mezza gli spettatori con pochi soldi, un solo personaggio, una macchina e un camion. Nient’altro. Padronanza della suspense e del mezzo cinematografico senza pari, e riscrittura indelebile delle coordinate narrative (perfino Scott e le sue Thelma e Louise, esattamente vent’anni dopo, hanno dovuto rifarci i conti).

Un tranquillo week-end di paura, 1972, John Boorman. Ancora oggi sorprendente, spiazzante, volutamente sgradevole eppure affascinante. Ribaltamento programmatico del mito della natura che si vuole sempre “buona e giusta”. Per tre quarti d’ora ti fa venir voglia di comprare una canoa e remare per sempre nei fiumi più sperduti della terra, d’improvviso ti precipita in un incubo angosciante dal quale non si uscirà neanche dopo la fine delle peripezie. Non privo di difetti, ma potente e originale come pochi altri film prima e dopo di lui. Colonna sonora memorabile, con l’indimenticabile duello fra banjo e chitarra.

Pat Garrett & Billy the Kid, 1973, Sam Peckinpah. Il western senza più il west, il crepuscolo degli eroi, la storia di due destini scritti dalla nascita. Dolce e malinconico come le meravigliose ballate scritte per il film da Dylan (su tutte, ovviamente, la meravigliosa Knockin’ on heaven’s door). Mitico persino lo stesso Dylan come attore nel personaggio di Alias, ambiguo ed enigmatico come la sua voce che canta in sottofondo. Perfetti, forse mai più così bravi, Coburn e Kristofferson.

La conversazione, 1974, Francis Ford Coppola. Concordo con Beppe su “Una delle più belle scene finali di sempre” (se ne ricorderà anche Spielberg per il suo recente Munich). Per il resto, la migliore dimostrazione che ci ha potuto dare Coppola di essere anche un gran regista, al di fuori dei film “alimentari” e dei deliri di onnipotenza che poi hanno caratterizzato la sua carriera. Un piccolo grande film, con tematica e risvolti dimostratisi largamente in anticipo sui tempi.

Il fantasma del palcoscenico, 1974, Brian De Palma. Il delirio barocco di un regista visionario e talentuoso che ancora oggi, alla soglia dei sessant’anni, non ha smesso di divertirsi con il cinema e con il pubblico, chiamandolo ogni volta allo sforzo di stare al suo gioco, e di farsene catturare senza riserve. Film che mescola insieme qualunque genere, il musical, l’horror, la commedia. Gusto irresistibile a scoprire ogni volta gioco e meccanismi in vertiginose aperture e chiusure di scatole cinesi. Canzoni e musiche di Paul Williams (qui perfetto anche come attore e pronto a prendersi in giro senza riserve) rivoltate di continuo come calzini a beneficio della storia, delle inquadrature, dei giochi fra i personaggi e della rilettura (pop-rock) di un classico più originale fra tutte quelle mai concepite e realizzate.

Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975, Milos Forman. Prova impressionante di attori, tutti perfetti e tutti al loro massimo. Scontato dirlo di Nicholson, ma tutte le “facce da matto” che animano il mondo distorto intorno a lui sarebbero poi diventati attori di prim’ordine. Danny De Vito, Christopher Lloyd, e il fantastico indiano “Grande Capo” Will Sampson, gigantesco e muto per tutto il film. Citazione anche qui doverosa per una battuta di Giorgio Gaber in un suo famoso monologo dell’epoca dedicato agli americani: “Sotto sotto c’è sempre il western: anche nei manicomi riescono a metterci gli Indiani!”

Lo squalo, 1975, Steven Spielberg. Sarà pure, come dice Wikipedia, che segnò la fine di un’era dando inizio a quella dei blockbuster, ma avercene, di blockbuster così. Un film perfetto, una macchina di suspense mai più eguagliata, un gioco di attori magistrale, un senso di attesa prolungata che ti inchioda alla sedia e un perfetto meccanismo di presenza/assenza attraverso i suoni, gli oggetti che fanno da tramite (bidoni, pezzi di legno, al massimo una pinna) e la ripetizione di tre note di pianoforte. La prima apparizione, dopo tre quarti di film, può solo far dire al protagonista la mitica frase che dà il titolo a questo articolo (o a questo ciclo?). La vera, autentica versione contemporanea (e lo è ancora oggi) del Vecchio e il Mare e di Moby Dick. (Per chi non è abbastanza cine-malato, ricordiamo o segnaliamo che il sonoro della scena della morte dello squalo è lo stesso della fine del camion in Duel).

I tre giorni del condor, 1975, Sidney Pollack. Film dal fascino sottile e difficilmente ripetibile (ci hanno riprovato di recente con Spy game, carino ma solo tecnica e niente cuore). Redford e Dunaway al meglio della forma, Von Sidow elegante assassino pericoloso come non mai, intrigo quasi incomprensibile ma poco importa, tanto il senso del complotto e degli ambigui giochi di potere è forte e ben rappresentato. Piazzò le fondamenta di tutti i dubbi sulla CIA e i servizi segreti in genere, sul potere che alla fine si scopre sempre essere il denaro e null’altro, sulla paranoia di essere sempre al gioco di qualcuno più grande di noi, paranoia rilanciata nell’ultima scena del film, per lasciarci con un dubbio che non si scioglierà mai.

Il Maratoneta, 1976, John Schlesinger. Il prototipo del thriller moderno. Secco, inaspettato, feroce e teso. Tutti i thriller successivi, ma proprio tutti, gli hanno copiato qualcosa. Hoffman al suo meglio, Scheider magnifico, e Laurence Olivier in una delle sue interpretazioni più geniali e più sottili. E, naturalmente, la scena della tortura dentistica che ancora oggi fa rabbrividire. Niente sangue, niente splatter, ma terrore puro. Alzi la mano chi non vorrebbe essere altrove quando Olivier prende in mano il trapano (non lo guardate mai in tv, la scena è orrendamente tagliata).

Quinto potere, 1976, Sidney Lumet. Da rivedere oggi. Con tutti i suoi aspetti inevitabilmente datati, ci aveva già detto tutto, senza pietà e senza girarci intorno, sulle TV commerciali, sul loro potere e sui loro pericoli. Molte delle cose che sembravano esagerazioni sono diventate la routine di qualunque TV. E poi, su una serie di dialoghi mai così curati, una sequenza di duetti recitativi da antologia: Holden con Finch, Finch con Beatty, Holden con Dunaway, Straight con Holden, e un sensazionale Robert Duvall (“Due miliardi di dollari non sono una ripicca, sono il furore di Dio!!!”)

Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977, Steven Spielberg. Ancora lui. Dal '71 al '77 ha infilato una sequenza di colpi che avrebbero steso al tappeto qualunque voglia conservatrice. Dopo l’esordio di Duel, una messa a punto di gran classe (Sugarland Express), il boato de Lo Squalo, nel '77 prende la fantascienza, la smonta come un lego e la rimonta in uno spettacolo che lascia ancora oggi a bocca aperta. Non per gli effetti speciali (che oggi non ci stupiscono più), ma per la capacità di trasformare quello che poteva essere un semplice film di fantascienza in una autentica esperienza visiva. Non solo il ribaltamento dei clichè, ma il ribaltamento della stessa idea di cinema, e di riflessione sul cinema (non a caso infila, in un filmone hollywoodiano del genere, il regista Françoise Truffaut, gli dà il ruolo dello scienziato e gli fa fare da regista dell’incontro. Come già per La finestra sul cortile di Hitch, anche qui non siamo di fronte a un semplice film di fantascienza, per quanto bello e originale, ma siamo di fronte ad uno dei migliori film “sul cinema” di sempre).

Guerre Stellari, 1977, George Lucas. Impossibile tenerlo fuori. Il cinema moderno, che ci piaccia o no, lo si deve a lui. E se non ci piace non possiamo dare a lui la colpa. In contemporanea agli “incontri” di Spielberg, anche lui riscriveva il cinema usando la fantascienza. Magica mescolanza di generi (western, noir, Kurosawa e Metropolis), grandioso spettacolo dove la fantasia scavalcò la mancanza di mezzi per risolvere problemi nuovi. Da allora la fantascienza ha visto entrare la polvere nel suo mondo, niente più ambienti asettici, le astronavi si rompono, c’è un sacco di roba vecchia. E da allora, oltre la fantascienza, il cinema ha ritrovato uno spirito che era andato perdendo dai tempi di Griffith: non facciamo le cose perché la tecnica ce lo permette, decidiamo cosa vogliamo realizzare, e se la tecnica attuale non ce lo permette inventiamo una tecnica nuova (pochi altri sono stati capaci di farlo: Disney con Fantasia, Hitchcock con Gli Uccelli). In ogni caso, che piaccia o che faccia schifo, c’è poco da discutere: gran parte del cinema degli anni ottanta e novanta, compresi grandi capolavori, senza Star Wars non sarebbero esistiti.

 

Leggi il ciclo di Beppe, che ha inventato questo gioco.

Tutti i film