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Patacche e gioielli d'Argento di Alessandro Borgogno - 24/12/2005 Stimolato dalla sacrosanta e implacabile recensione di Armando, il mio cuore sobbalza ed esige un discorso su Dario Argento. E’ vero. Il maestro ha perso la mano da tempo, da molto tempo. E noi che ancora lo amiamo non ce ne diamo pace. Lo amiamo perché non possiamo farne a meno. La prima volta che vidi al cinema Profondo Rosso, contravvenendo anche al limite di età (mi sembra avessi meno di quattordici anni), tornai la sera a casa rasentando i muri, guardando dietro gli angoli prima di svoltare e facendomi otto piani a piedi angoscianti pur di non prendere l’ascensore che mi appariva ancora più angosciante e soprattutto senza vie d’uscita. A uno che ti segna in questo modo l’adolescenza non puoi non voler bene. Come alla prima ragazza che ti ha fatto passare la prima notte insonne. Ed è da lì che parte il vero mistero della retrocessione di Dario Argento da talento praticamente compiuto a becero incollatore di sequenze di categoria sempre più bassa (credo ormai sia sceso fino alla promozione, la serie B in confronto è roba da fuoriclasse). E veramente di mistero si tratta, quasi unico nella storia cinematografica nostrana e non. Dario Argento ha messo mano, agli esordi, a sceneggiature di capolavori assoluti come C’era una volta il West di Sergio Leone, poi è passato dietro la macchina da presa e ha sfoderato come opera prima L’uccello dalle piume di cristallo, suspense e inquietudine cristalline, segnando indelebilmente il thriller di là a venire, impermeabili e guanti neri, soggettive del maniaco, ambientazioni quotidiane ma spiazzanti, ripetizioni al rallenti giocate continuamente sul “visto e non visto”. Un gioiello, perfino nella simpatica cialtroneria di alcuni personaggi e di alcune battute. E almeno due scene, l’omicidio sul letto e l’aggressione in casa della ragazza di Tony Musante, che non ti dimentichi più. Nel rivederlo di recente, ho anche scoperto con soddisfazione non raccontabile che si è tolto, e parliamo sempre di esordio, lo sfizio di utilizzare in una parte minore, addirittura non accreditato (il killer con la giacchetta gialla), lo stesso indimenticabile caratterista che fece il killer con la pistola in una delle scene più famose della storia del cinema, l’attentato all’Albert Hall di Londra, lo sparo al colpo di piatti, ne L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock! Come fai a non amarlo uno così? E ha proseguito negli anni successivi con le idee chiarissime, con Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, non esenti da difetti ma compatti, pieni di trovate, e che anche quando pescano nelle citazioni lo fanno con intelligenza e ironia (ad esempio la ragazza chiusa nel parco di notte, da L’uomo leopardo di Tournuer, a sua volta tratto da L’alibi nero di Cornell Woolrich, scrittore da cui anche Hitch a sua volta pescò per altri suoi capolavori, insomma circoli viziosi di gran finezza per gli amanti del genere). All’epoca, 1973, ha effettuato anche una felicissima incursione in TV, quattro episodi de “La porta sul buio”, di cui soprattutto uno, Il tram, è un altro gioiello. Usava materiali poveri (“er tranvetto de Roma”) per farli brillare di luci inconsuete, morbose o raggelanti. Era un piccolo e genuino genio. Poi, Profondo rosso. Raggiunge la vetta. Il K2 dell’horror italiano. Non una scena fuori posto, non una goccia di sangue di troppo, equilibrio inestimabile fra terrore, horror e perfino commedia. Si vede dalla prima scena che era in totale stato di grazia e che non avrebbe sbagliato un colpo fino all’ultima inquadratura. Chissà come succede una cosa così. Delle musiche si sa abbastanza, ma anche tutto il resto è pressoché perfetto, anche la simpatica cialtroneria di cui sopra. E naturalmente, la paura. Quel film viene definito in modo fulminante da Mereghetti, come ulteriore elemento a favore in una critica già positiva, “un attacco deliberato ai nervi dello spettatore”. Vero. E’ esattamente questo. Personalmente l’ho visto e rivisto, ce l’ho in VHS, in DVD e anche in versione High Definition per PC (quando si dice una fissa!), e ogni volta brividi, sottili inquietudini, godimenti visivi puri. Poi, la discesa inesorabile. Io ho pensato più volte che Dario Argento avesse un fratello gemello, e che questo fratello dopo Profondo Rosso sia morto, o tutt’al più abbia avuto un incidente gravissimo, lo tengano nascosto al mondo, e in condizioni di “coma vigile” nei film successivi sia riuscito solo, ogni tanto, a suggerire al fratello meno capace qualche guizzo. Perché guizzi ce ne sono pure, e fra questi la scena notturna con Flavio Bucci pianista cieco e il suo cane (Suspiria), Eleonora Giorgi inseguita dal demonio che apre in sequenza le porte a vetri (Inferno), diverse scene e soprattutto il memorabile finale di Phenomena, l’omicidio di John Saxon in pieno giorno in una piazza affollata, e tutta la sequenza finale di Tenebre, e altri lampi del genere sono ancora pezzi da maestro. Ma inspiegabilmente naufragano in sceneggiature prive di qualunque spessore, in scene di raccordo trascurate e sciatte, in recitazioni inspiegabilmente fastidiose, dove anche bravi attori non si sa come e perché diventano bambini svogliati alla recita di natale. E se si può ancora salvare qualche scena, ma talmente poche da non giustificare in alcun modo la visione di un film intero, ancora più alcuni interi film non possono definirsi in altro modo se non imbarazzanti: Opera, dove anche l’uso dei corvi grida vendetta al cospetto del maestro de Gli Uccelli, e la voce fuori campo dello stesso Argento, impacciata e tirata via anche mangiandosi le parole, ancora oggi suscita in me e nei miei amici risate sguaiate (“Betty avevaavutounincubo….” e nell’agghiacciante finale perfino “Lei no, lei amava i fiori, le montagne, la natura…”); e ancora La Sindrome di Stendhal, Trauma, tornando indietro anche Inferno, dove a parte la scena citata tutto il resto è sequenza di assurdità senza senso, e perfino le musiche di Keith Emerson finiscono per essere insopportabili. E infine, come punto più basso, almeno ad oggi visto che le ultime prove neanche ho avuto il cuore di vederle, metterei Il fantasma dell’Opera, inutile e disgraziata rilettura di illustri precedenti (perfino del meraviglioso Kitsch anni 70 di De Palma, altro raro film in stato di grazia), diluizione ai limiti della sopportazione nel soft-core, nella noia barocca, autentico insulto all’intelligenza dello spettatore. Ha voglia Armando di cercare possibili spiegazioni, anche intelligenti, nella frequentazione della spazzatura televisiva. Tutto vero ma non basta, qui c’è di mezzo qualcosa che forse è spiegabile solo con i mezzi dei suoi film (almeno di quelli migliori): Assassinio? Turbe psichiche? Sovrannaturale? Se non può passare la tesi del fratello gemello, ne propongo almeno un’altra che forse piacerebbe anche al maestro. Doppia personalità, esattamente alla maniera del Norman Bates di Psycho, e con la stessa soluzione finale. Fino ad un certo punto in Dario Argento devono aver convissuto, in modo anche conflittuale, due personalità distinte, e il conflitto stesso, nel momento in cui trovava un equilibrio, produceva i gioielli di cui si è parlato. Poi, da un certo punto in poi, una delle due personalità deve aver cominciato a prendere il sopravvento, e l’altra si è solo affacciata ogni tanto a far sentire le sue ragioni, ma in modo sempre più flebile e inascoltato dall’altra. Ora, infine, proprio con le parole dello psicologo nel finale di Psycho, “non c’è più alcun conflitto”, e la personalità dominante ha vinto. E’ una personalità che mantiene Dario Argento simpatico, sincero e anche volenteroso, e per questo continuiamo a volergli bene. Purtroppo non è quella che sa anche fare film.
Film citati da vedere L’uomo Leopardo di
Jacques Tournuer, 1943 Film citati guardabili Suspiria di Dario
Argento, 1977 Film citati da evitare Inferno di Dario
Argento, 1980 |