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La realtà che copia l'arte

di Alessandro Borgogno - 23/9/2007

Ci sono luoghi del mondo che diventano famosi non perché abbiano in sé qualcosa di intrinsecamente speciale o particolare ma perché qualcuno dotato di uno sguardo e di una sensibilità fuori dal comune vi trova quel qualcosa che altri non vedono, e attraverso la lente dell’arte li fa diventare luoghi unici, ritraendoli e riproducendoli, e così facendo trasfigurandoli in luoghi dove non esiste più distinzione fra ciò che quel luogo è e ciò che ormai rappresenta per l’umanità e per la sua storia.

E’ il caso dello stagno di Givency nella villa normanna di Monet, che sarebbe restato uno dei tanti bellissimi giardini francesi se il pittore non lo avesse trasformato, attraverso le sue Nymphéas, in un luogo senza più confine fra la sua realtà fisica e le sue e nostre proiezioni mentali. E’ il caso di tanti luoghi scelti da registi cinematografici per ambientare scene dei loro film che sono poi divenuti luoghi di culto perché ormai non sono più soltanto loro stessi ma restano indelebilmente legati anche a ciò che rappresentano (basti pensare al piccolo villaggio spagnolo usato da Sergio Leone per i suoi primi western).

Ed è senza dubbio il caso del Ponte di Langlois.

Si trova qualche chilometro a sud di Arles, nella tiepida e colorata Provenza francese, in piena Camargue, nota anche per essere uno dei delta con relativo parco nazionale più celebri d’Europa. E’ un ponte famoso non perché attraversi un grande fiume (è un piccolo canale artificiale fra i tanti del sud francese) o perché sia una rilevante opera di ingegneria (è un piccolo ponte levatoio in legno, con la struttura tipica di quelle campagne a inizio secolo). E’ famoso semplicemente perché un giorno Vincent Van Gogh, vagando fra le campagne in cerca di aria e di colori da trasferire sulle sue tele dopo averle scomposte e ricomposte nella sua mente non sempre lineare, arrivò qui e rimase incantato dal luogo, dalla composizione della scena, dalla brillantezza dei colori e, come disse, “dalla tranquillità” del posto.

E così ci tornò spesso. A fare schizzi, bozzetti e poi quadri, almeno tre fra i più famosi, con lo stesso paesaggio e composizioni leggermente diverse. Una volta con un carro sul ponte, una volta con una passante con ombrello, e così via.

I quadri sono diventati fra i suoi più celebri e celebrati. La composizione perfetta degli elementi, i colori irreali del mattonato e della natura che però riescono a donare realismo alla scena, l’irrequietezza che sempre, a dispetto della tranquillità teorica cercata dal pittore olandese, fuoriesce dagli elementi ritratti e si propaga nell’entità unica della tela.

E trovarsi sul luogo (ora giustamente ribattezzato “Pont Van Gogh”) produce un effetto dirompente e straniante allo stesso tempo, almeno per chi conosce e ama particolarmente i dipinti provenzali di Vincent. Si ha l’impressione che il tempo almeno lì si sia davvero fermato, congelato in colori vividi (anche se, come è accaduto al sottoscritto, lo si visita in una giornata grigia e piovosa). E se qualcosa non corrisponde esattamente all’immagine che ormai ci siamo fatti di quel posto, istintivamente ci viene da rimproverare la mancanza di somiglianza non al quadro, ma alla realtà.

Non mi sono neanche sforzato di documentarmi in modo troppo accurato per sapere se quel ponte, ora bloccato nella sua posizione aperta anche se il pittore lo aveva sempre ritratto chiuso e disteso ad unire le due sponde del canale, sia davvero lo stesso visto e dipinto da Vincent o se sia stato successivamente ricostruito, riadattato, restaurato per riportare il paesaggio allo stato di origine e trasformarlo anche in un luogo turistico. A giudicare dalla condizione e dall’età del legno sembrerebbe verosimile che sia l’originale, ma la verità è che non ha alcuna importanza.

In realtà quel luogo è talmente funzione della sua rappresentazione che basterebbe anche solo il suo essere proprio “quel” luogo, anche se il ponte non ci fosse più, per essere un luogo del mondo speciale e diverso da qualsiasi altro. E il fatto di trovarci quel ponte, poterne vedere e misurare la grandezza, la sua distanza dall’acqua, la conformazione delle sponde, i campi intorno al canale che aiuta a oltrepassare, riesce a dare comunque la sensazione piuttosto inedita, e senza dubbio rara, di trovarsi in un luogo consegnato alla storia non da un avvenimento specifico come una battaglia, una nascita o una morte, ma da un atto creativo che con la sola forza della mente e la sua traduzione in gesto (in quel caso il gesto del braccio e della mano con il pennello) lo ha trasformato da luogo concettuale in luogo fisico, un luogo che possiamo non più soltanto guardare con gli occhi, ma anche attraversare, dove possiamo camminare, respirare, toccare le cose, vivere.

Immagino siano posti del genere che hanno ispirato Kurosawa, ormai ottantenne, a girare il suo episodio di Sogni in cui fa muovere e camminare il protagonista direttamente dentro i quadri di Van Gogh, come se la realtà da attraversare per incontrare il personaggio storico sia quella dei dipinti, e non quella geografica.

Luogo strano, concreto ed irreale allo stesso modo, dove il modello si confonde con l’opera e l’opera sconfina dal suo essere copia fino a diventare lei stessa il modello della realtà.

Davvero uno dei rari casi in cui non ci si trova in un luogo divenuto quadro, ma in un quadro divenuto luogo.

 

Ponte Van Gogh, Arles, Francia
 Latitudine e longitudine per Google Maps: 43°39'25.01"N, 4°37'16.14"E

Per vedere le diverse versioni del Ponte di Langlois:
http://www.vggallery.com/painting/p_0400.htm
http://www.vggallery.com/painting/p_0397.htm
http://www.vggallery.com/painting/p_0571.htm
http://www.vggallery.com/painting/p_0570.htm

Film citato: Sogni, di A. Kurosawa
USA, 1990

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