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Oro e neve da un mondo "vero"

di Francesca Lozito - 1/3/2006

Su una cabina telefonica della stazione di Porta Nuova, c’è un cartello, fatto con la carta da quaderno, sopra c’è scritto in modo lapidario “Rocca è caduto …”. In molte delle fotografie promozionali della città è lo sciatore di Livigno l’uomo “immagine” dei Giochi Olimpici che si sono conclusi a Torino dopo 15 giorni in cui la vecchia capitale d’Italia è stata al centro del mondo. Ma l’Olimpiade l’hanno fatta gli Zoeggler, i Piller Cottrer e i Fabris. Gente che per strada non la riconosci, che se ne sta la stragrande maggioranza dei mesi dell’anno rintanata in un palazzetto o su una pista o a correre in mezzo alle montagne.

E in fondo in una città come Torino, che sta lì in quell’angolo dell’Italia, senza disturbare troppo nel frastuono italico – perché in fondo non sta bene fare casino – chi poteva vincere se non loro?

foto di F. Lozito

Di Torino fino a due settimane fa, quando ne parlavi con la gente, ti rispondeva con un gesto di disgusto “Che brutta”, “Ah, sì, la città della Fiat … e dei meridionali che ci sono andati a vivere cinquant’anni fa”. Da oggi Torino è la città delle Olimpiadi, del mare di gente che si è riversato in città, ammirandone le bellezze – il centro storico, il lungo Po -, apprezzandone pure lo storico mercato di Porta Palazzo, regno dei “terroni” un tempo, ed ora territorio degli immigrati.

Oggi ci si chiede se un’Olimpiade può cambiare il volto di una città e la risposta che viene da dare istintivamente è no. I torinesi un po’ di depressione saranno capaci di farsela venire, altrimenti che bugianen sarebbero?

Però Torino in questi quindici giorni ha provato ad insegnarci qualcosa: che l’Italia e gli italiani devono avere il coraggio di mostrarsi per quello che sono, senza paura. Mi spiego: il Villaggio Olimpico sorgeva negli ex mercati generali nei pressi di Lingotto. Un posto che, fatto salvo il panorama, è decisamente brutto: fabbriche dismesse, cementificazione selvaggia. Eppure… eppure, sarà stato l’evento, ma popolata di svizzeri, canadesi e cinesi con il classico naso all’insù sembrava in fondo avere una sua dignità che viene da lontano. Perché i ruderi di una fabbrica ci fanno ricordare che se oggi le fabbriche le abbiamo spostate in altre parti del mondo, noi veniamo da lì. Orgoglio e rispetto per un mondo vero, dunque. Come quello dei tre giovani che se ne sono andati da Torino con un peso d’oro al collo.

foto di F. Lozito
Due alpini "a guardia" del Museo Egizio

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