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L'uomo che non aveva immaginazione

di Alessandro Borgogno - 5/4/2009

“Io non ho alcuna immaginazione, sono solo molto attento ai dettagli”. Così diceva di sé Georges Simenon (Liegi 1903 – Losanna 1989). Un po’ di snobismo nell’autodefinizione, senza dubbio (Simenon era senz’altro uno snob), ma anche una verità profonda e sottile che è facile incontrare leggendo i suoi romanzi.

Lasciando da parte il ciclo di Maigret, denso di capolavori, che merita un discorso a parte anche se profondamente legato a tutta la sua narrativa anche non poliziesca, gli altri romanzi dello “scrittore francese di origine belga” (la maggioranza, dato che nella sua sterminata produzione letteraria si contano più di cinquecento romanzi) presentano, al di là di una varietà di temi notevole (poliziesco, noir, romanticismo, avventura, autobiografia) una sorprendente unità di stile.

Riemerso da poco da una lettura (e ri-lettura) di alcuni suoi romanzi, uno di fila all’altro, mi sento di azzardare una brevissima analisi e anche, mi perdoni zio Georges, una personalissima classifica.

In tutte le sue storie ci sono senza dubbio degli elementi che possono essere messi a fattor comune; tenterò di definirne alcuni.

Anzitutto il vocabolario. Qualunque storia decidesse di raccontare, la narrava utilizzando una quantità di termini decisamente limitata. Scelta volontaria, ovviamente. Retorica praticamente a zero, voli sintattici e ricercatezze linguistiche ridotte ai minimi termini. Raccontava qualunque cosa con una semplicità di vocaboli e di periodi assolutamente disarmante. E questo, evidentemente, un po’ gli permetteva e un po’ anche lo costringeva a delineare situazioni, ambienti, atmosfere e stati d’animo sempre in modo preciso, diretto, con pochi giri di parole.

Malinconia. Se c’è un sentimento comune ad ogni romanzo di Simenon, mi sembra essere questo. Non nostalgia né disperazione né dramma, ma una sottile e penetrante malinconia che spesso arriva ad essere perfino piacevole, forse mai veramente triste, di sicuro sempre sottilmente coinvolgente.

Penetrazione. Con questi mezzi, e l’attenzione ai dettagli da lui stesso citata, riusciva ad avere una capacità di penetrazione assolutamente sorprendente. Con qualche parola, con un particolare, con una semplice e diretta associazione, era capace di identificare uno stato d’animo, una sensazione, una atmosfera, un intero ambiente e tutto quello che gli ruotava attorno con una precisione assoluta. Niente descrizioni di pagine e pagine per definire un luogo, o un’emozione. Tre parole, e l’effetto è quasi sempre di una nitidezza senza scampo.

Dramma interiore. Le sue storie contengono sempre un evento drammatico, inteso nel senso di una rottura dell’equilibrio, di uno stravolgimento della linearità di una vita, di un rapporto, di una famiglia, di un ambiente, di un quartiere. Ma queste rotture e questi stravolgimenti non avvengono mai con fuochi d’artificio ed effetti roboanti. Avvengono, come capita nella vita reale, nella maggior parte dei casi quasi sommessamente, quasi per caso, quasi senza ragione. E la drammaticità, la rottura, lo sconvolgimento e a volte anche la tragedia che essi contengono o portano con sé, sono per lo più interne all’animo dei personaggi, alla loro vita interiore. E in questo modo anche i tempi del racconto, del cambiamento, della ricerca del percorso seguono una strada tutta propria, che costringe a viaggiare paralleli ai semplici fatti o avvenimenti che la storia, diciamo così, “esterna”, porta intanto avanti lungo i binari tradizionali del tempo e dello spazio.

Difficilissimo dire di più di uno scrittore che fa proprio dell’impalpabilità, dell’atmosfera legata ad un odore, ad un suono, ad un colore, il proprio stile altissimo e inconfondibile.

Fra la necessariamente limitata antologia finora attraversata (sarà impossibile leggerne anche solo una metà anche volendoci impiegare tutta la vita) mi permetto di citare le esperienze più notevoli incontrate finora.

L’uomo che guardava passare i treni. Fino a questo momento, per me, il suo capolavoro assoluto. Storia di una ribellione nei confronti del mondo attuata attraverso le strade più imprevedibili, capace di riflessioni fulminanti su temi come la percezione di sé, il condizionamento del mondo esterno nei confronti della nostra esistenza, la casualità del dramma e l’ipocrisia della morale, i meccanismi sottilmente perversi della comunicazione, fino ad una inaspettata discesa negli angoli più grigi e ambigui della psiche umana. Impossibile da riassumere. Impossibile da dimenticare.

L’Orologiaio di Everton. Altra vetta. Sorprendente viaggio nell’animo di un padre che scopre, all’interno di eventi di drammaticità assoluta, al tempo stesso la lontananza e la vicinanza dal proprio figlio, distanze e misure entrambe fino ad allora sconosciute o non comprese. Uno squarcio nell’intimità della natura umana, e nella sua vocazione profonda al rifiuto delle convenzioni. Percorso doloroso ed esaltante, oscuro e illuminante, dove le scoperte del protagonista sono altrettante scoperte del lettore su se stesso.

Tre camere a Manhattan. Incredibilmente una storia d’amore, quasi due soli personaggi e poco altro. Eppure, in questa storia che si vuole anche molto autobiografica, si attraversano, con tempie modi anomali, accelerati, concentrati nel giro di poche settimane, tutte le possibili fasi che un rapporto può attraversare nell’arco di venti o trent’anni, o anche non attraversare mai. I momenti esaltanti e quelli squallidi, le crisi di gelosia, il rapporto con le vite precedenti e l’influenza delle diverse situazioni sociali. Un romanzo evidentemente scritto in uno stato di euforia e capace di srotolare nell’arco di qualche capitolo due vite intere, e soprattutto il senso di due vite intere.

Il viaggiatore del giorno dei morti. Penetrante ritratto dei rapporti sociali in una cittadina di provincia. I meccanismi di potere e denaro che regolano i rapporti fra gli uomini, e la progressiva scoperta, da parte del giovane protagonista che ci si trova coinvolto suo malgrado, di quanto questi meccanismi siano in fondo parte integrante dell’animo umano, anche di noi stessi.

Le finestre di fronte. Praticamente, giunti alla fine della storia, ci si rende conto di aver letto un 1984 di Orwell in versione realistica e verosimile. Straordinaria la precisione con cui Simenon descrive gli ambienti e i personaggi che si muovono nell’ambiente diplomatico, in questo caso consoli stranieri in Unione Sovietica (precisione che posso confermare avendo avuto modo di conoscerne qualcuno di persona). Senza dubbio ha avuto modo di frequentare una situazione simile a quella raccontata, e senza dubbio qui c’è una delle migliori dimostrazioni della sua dichiarata “attenzione ai dettagli” che diventa riproduzione perfetta di ambienti e atmosfere.

Chissà, forse è vero che non aveva immaginazione. Certo è stato uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi.

Chissà se ne avesse avuta.

 

L'uomo che guardava passare i treni (1938), Adelphi, Milano 1991

L'orologiaio di Everton (1954), Adelphi, Milano 2005

Tre camere a Manhattan (1946), Adelphi, Milano 1998

Il viaggiatore del giorno dei morti (1941), Adelphi, Milano 1999

Le finestre di fronte (1933), Adelphi, Milano 2002

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