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La stralunata incredulità di Benjamin Button

di Ilaria Scala - 22/3/2009

Sull’onda del successo (successo?) de Il curioso caso di Benjamin Button, il kolossal ora nelle sale con Brad Pitt di cui è difficile non aver sentito parlare, abbiamo ripreso in mano il raccontino omonimo da cui il film è tratto, di Francis Scott Fitzgerald, di cui invece moltissimi non avevano mai sentito parlare prima.

La trama è nota: il neonato Button ha le fattezze di un vecchio di 70 anni, e con la crescita ringiovanisce, fino a morire muto e beato nelle spoglie di un lattante. Nel mezzo, nel corso di una quarantina di pagine in tutto, il racconto di una vita che appare singolare solo agli altri, e in cui il “gambero” Benjamin pare quasi sempre trovarsi a proprio agio, se non fosse per le chiacchiere della gente, per la disaffezione dei parenti, per le umiliazioni subite da chi rifiuta di riconoscerlo come un essere umano della (giusta) generazione: sempre troppo piccolo o troppo grande per le avventure che tenta di affrontare (l’università, la guerra, il matrimonio), il protagonista si vede sbattere in faccia la porta da una pletora di personaggi incapaci di osservare la verità al di là delle apparenze.

La trama è nota, e i risvolti fantascientifici si potrebbero immaginare.

Stupisce perciò l’idea che una simile materia “fantasy” sia in mano a Fitzgerald, ritrattista di caratteri psicologie e costume di una certa America degli anni ’20. Riuscirà Fitzgerald – viene da chiedersi – ad applicare il suo sguardo discreto e profondo, e il suo stile lieve, ad una storia che potrebbe sfilacciarsi in mille rivoli di incongruenza, e risultare assurda, folle, infantile, se non trattata con la mano rigorosa di un Philip Dick o di uno Stephen King?

Ebbene, il vecchio Scotty ci riesce eccome.

Il racconto è assolutamente “suo”, per la descrizione degli ambienti, per i dialoghi, per le notazioni psicologiche che in una riga illustrano un’anima. E non è mai stucchevole o pretenzioso, anzi è talmente scorrevole nel raccontare la vita di un uomo “fuori sincrono” che ci fa quasi dimenticare di star assistendo a un’esperienza straordinaria. Il punto di vista di Benjamin Button diventa il nostro, ci sembra di guardarci intorno da “dentro” di lui, ed ecco che gli inetti, gli ottusi, i “fuori sincrono” diventano gli altri, tutti gli altri: la moglie, il padre, il figlio, che invece di disperarsi, curarlo o compatirlo, invece di – semplicemente – tentare di volergli bene per quel che è, si ostinano ad emarginarlo come se la sua strana natura fosse colpa sua, come se se la fosse scelta per far dispetto a loro. E mai una volta che gli chiedessero “Ehi, ma tu cosa provi?”

Chissà se anche il film è riuscito a riprodurre questo spirito di stralunata incredulità.

 

F. Scott Fitzgerald, Il curioso caso di Benjamin Button
Donzelli Editore, Roma 2009 (prima ed. 1922)

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