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Qui al Nord

di Beppe Giuliano - 17/9/2008

(per Ilaria, da poco “qui al Nord”)

 

“Il Nord di cui parla questo libro è il territorio nel quale sono cresciuto e mi sono formato all’epoca in cui il suo cuore pulsante era l’imponente concentrazione di lavoratori, capitali e mezzi di produzione detta il «triangolo industriale»...” scrive in premessa al proprio Nord (Mondadori, 2008, € 18) Giuseppe Berta, docente alla Bocconi, ricercatore e consulente per imprese e istituzioni, uno dei maggiori studiosi ed esperti di storia dell’industria, e di storia delle élite economiche e delle rappresentanze degli interessi. E grazie a queste competenze, unite a una capacità di scrittura notevole, il “ritratto” che il professor Berta fa del Nord (in cui vivo) dal dopoguerra a oggi, è ricco, completo, e impreziosito anche da gustose riprese dai testi di osservatori d’eccezione come Guido Piovene, Giovanni Testori, Lucio Mastronardi, Italo Calvino, Luciano Bianciardi...

Il racconto di Giuseppe Berta (il termine racconto ci pare il più adatto, perché questo libro sa uscire felicemente dai confini della saggistica) si snoda, nei vari capitoli, fra le imprese, il lavoro, la forma urbana e la rappresentanza politica.

Con una veduta sempre ampia, anche intelligentemente inusuale a tratti.

Il capitolo dedicato alle imprese parte con un’analisi delle ragioni del successo economico del dopoguerra, nato sovente dalla “capacità di lavoro”, spesso percepita come “una missione economica parossistica, esercitata con una sorte di furore quasi cieco” (in cui di fatto manca il capitalismo, quindi. O è “solo lavoro e niente intuito”). Ma ci accompagna pure sull’asse “della modernità Torino-Ivrea”, fotografa bene “Milano capitale”; e racconta in modo complessivo, lucidamente (senza gli eccessi adulatori che spesso abbiamo dovuto riscontrare) l’avventura dell’Eni di Mattei: “...probabilmente non è il demiurgo, l’eminenza grigia della politica italiana che la stampa statunitense raffigura, una specie di capitano di ventura rinascimentale che vorrebbe tradurre Machiavelli nell’idioma del managerialismo moderno... Forse Mattei, alla lunga, sembra piuttosto un apprendista stregone malgré soi, che la morte improvvisa di Ezio Vanoni nel 1956 ha privato dell’unico legame politico affidabile. Di lì in poi, la sua ricerca di una sponda di partito a cui assicurare le sorti dell’Eni si fa quasi convulsa, non di rado erratica...”. Il capitolo in questione arriva a leggere, poi, la fine del «miracolo», la mancata riforma manageriale, e a rispondere al quesito: “perché è venuta meno la progettualità economica del Nord?” attraverso “l’afasia della grande impresa”degli anni ottanta, “un periodo punteggiato di discorsi, dichiarazioni, interviste dell’Avvocato Agnelli, di Cesare Romiti, di Raul Gardini, di Carlo De Benedetti e degli altri protagonisti delle vicende economiche d’allora, che diedero talvolta l’impressione di immergere l’opinione pubblica in un clima di autentica celebrazione dell’impresa e dei suoi risultati. Che fosse gloria effimera fu evidente in breve, dopo che i traguardi italiani vennero presto superati, e ancor più rapidamente accantonati. Da nessun punto di vista, quella fu un’epoca di accumulazione di risorse. Piuttosto il sistema delle imprese ne dissipò molte...” Fino al recente passato, quando la “mobilitazione individualistica... è stata raffigurata sovente come una corsa all’enrichez vous, scatenata da null’altro che dallo spirito d’acquisizione, soprattutto nel Nordest, patria di un capitalismo spontaneo, sorto dal basso in antitesi a quello iperdisciplinato del Nordovest.”

Spunti altrettanto intriganti negli altri capitoli; parlando del lavoro, ad esempio, Berta scrive: “Sotto l’urto di un’apertura ai mercati e alla concorrenza internazionale che rende affannosa la gara per il mantenimento e lo sviluppo dei margini di profitto, l’impresa si spoglia degli abiti paternalistici della storia dell’industrializzazione per assumere un’inedita propensione a comportarsi da matrigna. L’anzianità, l’attaccamento al posto di lavoro - doti di una volta, che sottintendono innegabilmente un certo grado di rigidità nella prestazione - si tramutano di colpo da valori in disvalori, altrettante testimonianze di criteri aziendali superati...”

E poi “la fine del vecchio «triangolo» (noi alessandrini, ufficialmente, non ne siamo più al centro, vivaddio - NdR), affossato nel momento in cui Milano sceglie per sé una nuova identità. La sceglie nel modo che è nelle corde della città, naturalmente: senza una discussione né un confronto pubblico. Essa muta semplicemente il corso del proprio sviluppo, probabilmente tornando alla matrice originaria, alla propria natura storica di città di scambio, permeata dalle funzioni commerciali. Ma colpisce che, diversamente da altre città portate a interrogarsi fin troppo spesso sulla loro direzione di marcia (come Torino, in primo luogo), Milano non ponga la questione della propria conversione al terziario come tema centrale della politica urbana, limitandosi ad attivarla... Sicché ritornerà immancabile il ricordo del ruolo perduto di «capitale morale», seppellito sotto un’ansia di modernità che non concede scampo né tregua, indifferente alle questioni di identità.”

Ci piace concludere con un’acuta riflessione, sociale, sull’oggi: “L’insicurezza finisce così coll’essere una chiave dominante in una società che, se fosse abituata a guardarsi indietro, dovrebbe semmai sentirsi garantita dalla propria storia.”

 

G. Berta, Nord
Mondadori, Milano 2008

http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=8804575964

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