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Lo snobismo del riccio

di Ilaria Scala - 31/8/2008

Che cos’è, questa eleganza del riccio (per gli amici: il Riccio), best-seller dell’anno 2008 (quando scriviamo, siamo alla ventunesima ristampa)?

È un romanzo di formazione (quella della dodicenne Palma, arguta e arrogante come si addice ad un’adolescente di buona famiglia molto dotata) e, in parallelo, di de-formazione (quella della cinquantaquattrenne Renée, filosofa e intellettuale autodidatta travestita da portinaia, costretta da una serie di coincidenze emotive ad uscire dalla clandestinità dorata faticosamente costruita in quasi quarant’anni).

È un bignami di filosofia e storia dell’arte, grazie alle disquisizioni di Renée, che dalla sua guardiola, in gran segreto, osserva i movimenti dei condomini del signorile palazzo parigino in cui è impiegata, e trae spunto dalle loro umane vicende per riflettere sulle stranezze della mente, del linguaggio, della società, sul senso della bellezza nella vita e nella storia dell’arte.

È un soggetto cinematografico, ché la doppia narrazione in prima persona, e il doppio punto di vista sulle stesse vicende, ben si presta ad un montaggio parallelo di due anime parallele che finiscono per incontrarsi, due personaggi archetipici che nella realtà sarebbero destinati a non guardarsi nemmeno: la giovane ricca istruita viziata problematica e la vecchia modesta umile e introversa. L’incontro, quasi un corto circuito, è favorito da una terza anima, quella di un ricco signore giapponese che si trasferisce nel palazzo a metà della storia, provocando una serie di reazioni a catena destinate a cambiare per sempre la vita delle due protagoniste.

Ma L’eleganza del riccio è, soprattutto, un’ottima idea sviluppata male: per l’incongruenza e difformità dello stile – a tratti ridondante e prolisso, a tratti manieristico e lirico, a tratti ironico e quasi giovanilistico; per lo schematismo psicologico: i due racconti perdono di realismo in molti punti, in cui dietro le parole dell’adolescente-troppo-matura-per-la-sua-età si scorge la mano dell’autrice travestita da dodicenne, e in quelle della portinaia-troppo-istruita-per-la-sua-classe-sociale si scorge l’ambizione di stupire a tutti i costi con un ritratto anti-convenzionale (chi l’ha detto che una portinaia debba essere analfabeta, o che non debba amare la lettura? Una cosa è presentare un personaggio vezzoso e originale, un’altra è descrivere con disprezzo le caratteristiche “tipiche” delle portinaie: la cucina maleodorante, la scarsa cura della persona, l’attitudine a mettere il naso nei fatti altrui, il linguaggio semplice…).

Il difetto peggiore del romanzo sta proprio in questo snobismo strisciante, nel fatto che i messaggi che tenta di trasmettere (“Toglietevi la maschera.” – “Nessuno è ciò che sembra.” – “Sappiate guardare oltre.” – “Uscite dagli schemi”, intesi come gerarchie sociali e ruoli pre-assegnati) siano presentati con una profondità ostentata, che suona pretestuosa e un po’ falsa: gli aculei nascondono l’eleganza e la grazia del riccio… ma se questa difesa non fosse una protezione dalla crudeltà del mondo, bensì una scelta individuale di chiusura verso il prossimo?

Leggete il finale, che dopo 300 pagine di faticosa costruzione della “morale”, la soffia via come un castello di carte… e chiedetevi se non c’è snobismo nel pretendere di descrivere un incontro impossibile senza saperne gestire le conseguenze (ok, la portinaia legge Proust, e ora che tutti lo sanno che cosa succede? Rimane in guardiola fiera del suo mestiere o va ad insegnare storia della filosofia a Oxford? Per non rispondere a queste domande la Barbery si inventa un finale a sorpresa che la toglie d’impaccio…). Non diremo altro per non rovinarvi anche il gusto di arrivarci.

 

M. Barbery, L'eleganza del riccio
Ed. e/o, Roma 2007

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