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La maturità del Genio

di Alessandro Borgogno - 10/8/2006

Prima di entrare devi aspettare circa un quarto d’ora in una sala climatizzata, di modo che gli sbalzi di temperatura ed umidità non entrino a minare microscopicamente l’equilibrio e la delicatezza di ciò che c’è all’interno. E mentre aspetti hai modo di guardarti un filmato che un po’ ti illustra, un po’ ti spiega, un po’ ti fa passare il tempo. In ogni caso i tuoi sensi sono già proiettati al di là della corta galleria a vetri, e hai già una parte del tuo corpo pronta ad entrare da quella porta laterale, unica entrata ormai possibile proprio a causa della fragilità del prezioso tesoro contenuto in questa piccola chiesa, esternamente quasi anonima e comunque disadorna, internamente totalmente colma in ogni angolo di arte sublime.

Sei a Padova, in attesa di entrare nella Cappella degli Scrovegni, così chiamata dal nome del suo “proprietario”, che per affrescarla degnamente e anche, molto più prosaicamente, per offrire a Dio un segno tangibile della sua devozione a scopo salvezza eterna - dati i suoi trascorsi poco edificanti di usuraio -, chiamò a dipingerla, nel 1303, quello che era il maggior pittore dell’epoca, e a ragione. Si chiamava Giotto.

Una delle cose più straordinarie di tutta l’operazione è che Giotto lavorò praticamente da solo, con pochissimi aiuti, e affrescò completamente tutta la chiesa, perché si chiamerà pure Cappella ma è una chiesa intera, in appena due anni. Un lavoro immenso, di inarrivabile rigore e precisione, senza un tentennamento e senza che mai gli scappasse il pennello.

Con una frase usata spesso si dice che Giotto dipinse come Dante scrisse. Guardando gli affreschi degli Scrovegni si capisce cosa vuol dire.

Ecco che finalmente si entra.

La prima cosa che ti colpisce è un’esplosione di colori, ma non violenti, in realtà un’esplosione di sfumature. Oggi si direbbe “pastello”. Viene subito da pensare ad un confronto con la Sistina di Michelangelo, un po’ per la straordinaria occasione raramente avuta da un’artista di avere uno spazio enorme e tridimensionale a completa disposizione, un po’ perché, qui come lì, in particolare sulla parete di fondo, l’immensa scena è dominata da un Giudizio Universale, tanto diverso quanto paragonabile per grandezza artistica.

Il parallelo sfuma subito, però, perché le pareti laterali, lunghe e altissime, ti catturano immediatamente e cominciano a raccontarti storie. Le storie di Anna e Gioacchino nella parte più alta, le storie della Vergine Maria loro figlia nelle parti centrali, le storie di Gesù, figlio di Lei e di Dio, nella parte più bassa. E’ una storia unica, continua, familiare e universale, e Giotto sembra la racconti in versi, cadenzandola in riquadri finiti in se stessi ma sempre connessi al precedente o al successivo, come in rima.

Chiude in basso con figure allegoriche, dipinte in monocromatico come fossero bassorilievi e non pitture, dei sette vizi capitali, ciascuno dei quali contrapposto, sull’altro lato, dalla sua corrispondente virtù, dipinti con una maestria e una cura del particolare davvero sbalorditivi.

Sulla parete di fondo, nel Giudizio Universale in bilico perfetto fra il medioevo e l’era che doveva ancora venire, l’Inferno come lo hai sempre immaginato da piccolo, Satana orrendo ed enorme che sputa fiamme e divora dannati, mostri a più teste, disperazione e supplizio. Immagine sorprendente, da parte di un pittore che una visione stereotipata ha spesso presentato come solare e bucolico.

Scorrendo avanti e indietro per questi racconti che ad ogni nuovo sguardo ti rivelano nuovi segreti, si colgono alcuni particolari strabilianti. Nella scena del Compianto sul Cristo morto, forse il riquadro giustamente più famoso, la figura di San Giovanni disperatamente inclinata in avanti e con le braccia allargate all’indietro è realizzata con le sole pieghe della sua tunica. Un gioco di masse e volumi rappresentato esclusivamente con ciò che le copre, dandogli movimento, spessore e profondità. Un virtuosismo da gran maestro. E un altro particolare impressionante, ma che devono segnalarti e poi devi guardare con un piccolo binocolo perché si trova in alto, sono le lacrime che scorrono sul viso di alcune madri nella scena della strage degli innocenti. Particolare rivelatore non solo della perizia tecnica di Giotto, ma anche della sua evidente capacità, e forse necessità, di entrare in rapporto non solo spaziale ma anche intimo con la sua stessa pittura. Tanto Michelangelo teneva conto della vista, anche da molto lontano, dei futuri spettatori dei suoi grandi affreschi, tanto Giotto sembra essere uomo capace di colloqui solitari con la sua opera. Non importa se quelle lacrime magari non saranno visibili dai fedeli giù in basso, comunque devono esserci, e il dolore immenso di quelle madri è anche privato.

Di Giotto si conoscono e si citano spesso, a ragione, i capolavori della Basilica Superiore di Assisi con le storie di San Francesco, tripudio di colori, cieli blu turchino, innovazione e invenzione di forme di composizioni. Visitando la Cappella di Padova però si capisce un’altra cosa ancora: gli affreschi di Assisi sono l’esplosione straordinaria di un talento unico nel suo tempo, quelli della Cappella degli Scrovegni sono una delle massime espressioni della maturità di un Genio.

 

Giotto di Bondone, Affreschi della Cappella degli Scrovegni
Padova, Cappella degli Scrovegni

http://www.cappelladegliscrovegni.it

http://it.wikipedia.org/wiki/Giotto 

 

Nel 2010, questo articolo è stato inserito nella raccolta Attraverso le forme, che potete trovare qui

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