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Il Cenacolo: l'attimo dissolvente

di Alessandro Borgogno - 2/5/2005

Fra tutte le idee da farsi venire in mente, nessuna potrebbe essere peggiore del voler scrivere del Cenacolo, l’Ultima Cena dipinta da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, visto che è, a volerne dire male, una delle più grandi opere d’arte di tutti i tempi.

Il fatto è che, oltre a questo, per me rappresenta anche un’esperienza prima mentale e poi fisica del tutto particolare che vorrei provare, naturalmente in modo assolutamente insufficiente, a raccontare in qualche modo.

Il Cenacolo è una di quelle opere che mi ha sempre fatto impazzire per tutto il tempo che l'ho studiata a scuola: fra i tanti motivi che lo meriterebbero, per uno in particolare.

Si tratta di quella stranissima faccenda per cui Leonardo, sperimentatore senza paure prima ancora che pittore, lo ha realizzato con una tecnica da lui contemporaneamente inventata e provata sul posto: una sorta di pittura a secco su una specie di stucco, con colori derivati da un impasto contenente anche rossi d’uovo e altre diavolerie naturali; una tecnica che ha legato l’esistenza stessa del quadro all’inarrestabile degrado della sua immagine, alla sua sottomissione alle leggi del tempo e del decadimento fisico e materiale, come fosse un elemento naturale al pari di qualsiasi altro.

E questo, a dispetto del dolore inesauribile nel vedere un capolavoro disfarsi lentamente sotto i nostri occhi, mi è sempre sembrato perfettamente in linea con tutta l'opera di Leonardo, così profondamente intrisa in ogni suo aspetto dalla presenza, vera o rappresentata, degli elementi atmosferici, della polvere, della rarefazione dell’aria e dei colori.

In sostanza, ho sempre visto nel Cenacolo un simbolo incredibilmente pieno di fascino di una rappresentazione della realtà che si consuma e scompare nel tempo come la stessa realtà che rappresenta.

Poi, un po’ di anni fa, sono andato finalmente a vederlo là dove si trova e si consuma da mezzo millennio, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, e mi sono reso conto che, al di là delle sensazioni più o meno filosofiche legate alla sua natura materica, per quel che riguardava la forma e l’immagine in realtà fino a quel momento non avevo capito niente, ma proprio assolutamente niente... e sono rimasto inchiodato davanti alla parete fino a che non mi hanno cacciato via (per ogni gruppo di persone, c’è un tempo massimo di permanenza nel refettorio, per limitare i danni dovuti agli sbalzi di temperatura e umidità provocati dai corpi stessi dei visitatori, a testimonianza ulteriore della meravigliosa fragilità di questa incredibile opera).

Quello che non avevo mai capito, perché neanche la migliore riproduzione riesce neanche lontanamente a renderlo in alcun modo, è il carattere totalmente fotografico della rappresentazione, quasi a bilanciare per contrasto il carattere mutevole ed evanescente della materia che lo compone.

E nel momento stesso in cui l'ho visto ho capito, in un attimo, che si tratta di una vera istantanea... esattamente nel senso fotografico del termine.

L’immagine rappresenta davvero l’istante immediatamente successivo alla frase “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” pronunciata dal Cristo al centro della tavola, e letteralmente “congela” quell’istante.

Ogni gesto, ogni emozione di ciascun personaggio è bloccata nell’attimo in cui sta per esplodere o è appena esplosa, in un gioco di composizione, di forme e di richiami di masse e pesi assolutamente immenso, che solo guardandola dal vivo, nelle sue dimensioni, proporzioni e nel luogo in cui è stata concepita si può davvero cogliere, in un colpo solo, possibilmente trattenendo il fiato un attimo prima di posarci gli occhi sopra, un po’ perché anche il fiato può danneggiarla, e un po’ perché in quello stesso istante i nostri polmoni si svuotano d’un colpo.

Qualche anno ancora dopo mi sono trovato di nuovo a Milano per lavoro, e ho mollato senza alcun senso di colpa la seconda metà di una conferenza per tornare a vederla dopo il famoso restauro (quello dichiarato definitivo, ma io a dare del definitivo a qualsiasi cosa riguardi Leonardo non mi fiderei troppo…), con i nuovi colori riportati alla loro brillantezza originale.

Altra mezz'ora di trance, e altro effetto quasi incredibile: i colori nuovi, meravigliosi e mai visti prima di allora da nessuno, è come se li avessi sempre visti così, come se ci fossero sempre stati, come se la forza della composizione fosse sempre stata talmente più forte di qualsiasi colore e di qualsiasi linea da mantenere la potenza e il senso dell’intera immagine, anche quando del quadro non si riusciva a distinguere quasi più nulla….

E, a chiudere il cerchio, proprio di fronte alla nuove meravigliose tinte che fanno finalmente risaltare le masse e la composizione del capolavoro, sono tornato alla sensazione che quelle masse e quell’incredibile congelamento dell’attimo sono talmente più importanti dei colori e dello stesso disegno, che il loro progressivo disfacimento torna ad avere un senso assoluto superiore ad ogni altro aspetto, quasi che solo l’assoluta instabilità della materia possa compensare l’altrettanto assoluta fissità di un’istantanea realizzata cinque secoli prima che la fotografia fosse inventata, e tanto da farmi arrivare a pensare, con un fascino quasi equivalente all’orrore, che se fossimo in grado di capirlo davvero fino in fondo la smetteremmo anche di opporci quasi pateticamente al suo inesorabile destino, che sembra davvero non essere altro che quello di confondersi prima o poi con l’aria, con l’ambiente e con il tempo che rappresenta e di cui al tempo stesso fa parte.

per guardare il Cenacolo: www.cenacolovinciano.it
per saperne di più: http://it.wikipedia.org/wiki/L'ultima_cena_(Leonardo)

 

Nel 2010, questo articolo è stato inserito nella raccolta Attraverso le forme, che potete trovare qui.  

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