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Fare i conti col passato

di Alessandro Borgogno - 14/01/2013

Robert Redford non smette di interrogarsi e di interrogarci sui fantasmi del passato che l’America ancora non ha terminato di inseguire. Stavolta sceglie la storia, probabilmente assai poco conosciuta, dei Weather underground, un gruppo sovversivo dei primi anni 70 che la propaganda federale decise a suo tempo di dipingere come pericolosi terroristi, a dispetto delle prove storiche che li mostrano in realtà come attivisti molto attivi che nel loro momento di massima violenza misero delle bombe dimostrative in luoghi deserti, assicurandosi di non fare vittime, e sempre a seguito di azioni violente da parte delle forze dell’ordine che spesso commettevano autentici delitti, primo fra questi l’uccisione di uno dei leader del movimento black panther, la cui causa i Weatherman avevano sposato integralmente.

Il fatto che una parte di loro deviò dal percorso di contestazione anche clamorosa per dedicarsi alle rapine a mano armata fornì all’FBI la scusa buona per scatenare una caccia trentennale (usando spesso mezzi illegali che infatti annullarono gran parte degli arresti) che ancora oggi, vuole dirci Redford, non è terminata. Con accanimento che appare davvero degno di miglior causa, la polizia federale scatena una ennesima campagna nei confronti dei vecchi leader del movimento oggi ormai anziani e più o meno nascosti sotto falso nome che si sono rifatti una vita restando negli Stati Uniti, a dimostrazione implicita che li considerano sempre e comunque il loro paese, quello che amano e che rispettano, e che ancora di più lo amavano quando tentavano di cambiare le cose a cominciare dall’assurda guerra del Vietnam che macinava ogni giorno orrori e sangue.

Con una sfilata fenomenale di attori, a volte mostrati volontariamente anche più anziani e soprattutto più stanchi di quanto siano in realtà, il film ci fa attraversare le loro vite di oggi ancora in bilico e ancora soggette allo stravolgimento più assoluto da un momento all’altro, appena la macchina persecutoria decide di rimettersi in moto per scovarli e colpirli. Un giovane giornalista segue le loro tracce, spesso aiutando involontariamente i federali (mostrati, tanto per cambiare, come discretamente ottusi e soprattutto poco brillanti nelle loro indagini), ma via via comprendendo meglio gli avvenimenti e la coscienza di quelle persone che giocarono la loro vita per degli ideali negli anni in cui lui ancora non era nato. Strutturato narrativamente in modo geometrico e, come spesso accade per Redford, abbastanza convenzionale, il film trova il suo senso migliore non nella forma ma nel contenuto.

E la vera bravura di Redford si mostra nella scelta degli attori. Oltre al giovane Lebouf, probabilmente nella sua migliore prova di attore fino ad oggi, la comparsa via via di Susan Sarandon, dello stesso Redford, di Nick Nolte, di Julie Christie e di Sam Elliott riesce a comunicare il senso di una generazione e di una comunità (The company you keep, recita il titolo originale) che nel bene e nel male riesce ancora oggi a trovare modi e percorsi per esprimere concretamente solidarietà, trasmettendo implicitamente il senso di uno stare insieme che non ha perso i suoi significati profondi e primari. Più interessante che spettacolare, più intelligente che riuscito. Coerente però, e questo è davvero un grande merito, con il percorso di Redford che continua a ricordare all’America che i suoi fantasmi sono ancora tutti lì, e che bisogna farci i conti, sempre e comunque. C’è da ricordare infatti che Redford da sempre percorre, e costruisce di persona, le vie del cinema americano indipendente, al di fuori delle produzioni delle major, e che di sicuro è questo che gli permette di fare film del genere che il grande circuito ancora oggi non finanzierebbe e non promuoverebbe.

E, tanto per cambiare, da americani come lui, il più americano degli americani, una ennesima lezione per noi che abbiamo altrettanti scheletri nei nostri vecchi e nuovi armadi e che non riusciamo mai a guardare ed affrontare con la dovuta chiarezza per cercare una via di comprensione, né tantomeno ad illuminarli con il racconto o con altre forme di arte e di rappresentazione. Al di là del monopolio anche mediatico delle Brigate Rosse, pochi o pochissimi sanno che in Italia gruppi di contestazione sostanzialmente pacifici, e che mai hanno usato la violenza, ce ne sono stati decine e decine, e che i loro seguaci hanno ugualmente subito una vita di semiclandestinità o quantomeno di emarginazione, in forme assai simili a quelle raccontate dal film di Redford per i Weatherman (nome del gruppo derivato da un verso di una canzone di Dylan dell’epoca). Ma questa è un’altra storia ed è tutta nostra.

Probabilmente al momento non abbiamo un Redford capace di raccontarcela.

You don't need a weatherman to know which way the wind blows
(non serve un meteorologo per capire da che parte tira il vento)
Bob Dylan

La regola del silenzio - The Company You Keep, di R. Redford
con R. Redford, S. Lebouf, J. Christie, N. Nolte, S.Sarandon, S. Elliott – USA 2012

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