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Un dettaglio piccolo piccolo

di Ilaria Scala - 30/4/2011

Un dettaglio, che i libri non specializzati non riportano nemmeno.

Eppure un dettaglio affascinante, di forte drammaticità, la dimostrazione che il “fattore umano” decide il corso della storia, che i caratteri determinano atteggiamenti, comportamenti ed eventi. Che sì, magari le coincidenze condiscono il tutto, in qualche caso, ma che sono le persone a decidere davvero, perché, come cantava De Gregori, “è la gente che fa la storia”.

Giorgio VI re del Regno Unito non era un uomo qualunque, era un re. Logico che abbia avuto una parte nella storia della sua Nazione. Ma non avrebbe dovuto essere re, non lo fu per nascita, bensì per l’abdicazione del fratello Edoardo, che rinunciò al trono per sposare l’attrice divorziata Wallis Simpson.

Il dettaglio che i libri di scuola spesso trascurano è che Giorgio VI aveva un forte problema di balbuzie, il che non sarebbe stato un impedimento se non fosse diventato re, e se non lo fosse diventato in un’epoca in cui proprio la voce , grazie all’uso delle comunicazioni di massa, radio in primis, era diventata uno strumento efficacissimo per parlare al Popolo, a tutto il popolo contemporaneamente. Più che i davanzali reali, più che le fotografie, la voce del Re era ora un potente strumento di relazione, di empatia, di costruzione di senso, identità e consenso per la monarchia.

Ecco così che quel dettaglio – la balbuzie di Giorgio VI – diventa un simbolo di inadeguatezza e di sofferenza del potere, ma anche, infine, di riscatto e di vittoria sui propri stessi limiti.

Nel film di Tom Hooper Il discorso del Re, l’aspirante oratore, un sommo Colin Firth, premio Oscar, regale maestoso fragile irascibile, viene trascinato dalla moglie dai migliori medici del regno, che con metodi di dubbia scientificità tentano di risolvergli la balbuzie e togliergli il “disagio da microfono”. Poco prima di esser costretto a diventare re, incappa in Geoffrey Rush, personaggio a metà tra un logopedista e uno psichiatra sperimentale, sicuro di sé, anticonvenzionale, che osa scavare nella sua infanzia – terreno proibitissimo, visto il lignaggio del paziente -, ne estrae le tare, lo “allena” con esercizi muscolari e di respirazione, ma soprattutto lo ascolta e gli è amico, dimostrando che il Principe non parlava perché riteneva, inconsciamente, che nessuno lo avrebbe ascoltato.

L’allenamento culmina nel discorso dell’incoronazione e in quello del titolo: l’annuncio dell’entrata in guerra del Regno Unito contro la Germania nazista.

Sorreggono il film, oltre alle prove di tutti gli attori, la scenografia, i costumi, la colonna sonora, il montaggio ora posato ora serrato, a due velocità, a ritmo sincopato, “balbuziente” anch’esso. Il risultato è un’opera piena e completa, avvincente, emozionante, nonostante sia solo il racconto di un dettaglio piccolo piccolo.

Chissà se un Re più sicuro di sé, più solido, avrebbe saputo infondere al suo popolo il giusto incoraggiamento e la motivazione per resistere ai Nazisti. Chissà se non fu proprio l’esitazione di Giorgio VI nel parlare a renderlo più umano e credibile, ad avvicinarlo alle persone, a suscitare in loro la stessa voglia di riscatto.

La storia non si fa con i se. Il cinema, per fortuna, sì.

 

Il discorso del Re, di T. Hooper
con C. Firth, G. Rush, H. Bonham Carter, G. Pearce, T. Spall
USA 2010