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Viva l'Italia che non ha paura

di Alessandro Borgogno - 30/11/2010

Ci sono diversi ottimi motivi per andare a vedere Noi Credevamo, il kolossal risorgimentale di Mario Martone, tratto da un romanzo di Anna Banti e sceneggiato insieme a Giancarlo De Cataldo.

Il primo è che, vedendolo, ci si rende conto che del Risorgimento, il Nostro Risorgimento, non sappiamo praticamente nulla. Al di fuori delle figurine eroiche e dei riassunti freddi e impersonali dei nostri libri di storia delle medie e del liceo (più delle medie, temo), ci manca completamente il senso della storia (quella che siamo, o dovremmo essere, Noi), le connessioni, le passioni umane, i drammi sociali. E ci manca, a seguire, la narrazione di tutto questo. Il film di Martone infatti, insieme a tante altre cose, ci fa rendere conto di come manchi quasi completamente un corpus narrativo del nostro Risorgimento, fatto di film, di romanzi, di trasmissioni televisive, di documentari. Cavour, Mazzini, Garibaldi e tanti altri personaggi meno famosi ma non minori ci sono sostanzialmente sconosciuti. Li conosciamo perché ne abbiamo piena la toponomastica (una delle poche prove evidenti dell’unità d’Italia da loro compiuta: dal sud al nord ogni paese o città ha la sua piazza Garibaldi, il suo viale Mazzini, la sua piazza Cavour), ma al di fuori delle targhe e dei musei del Risorgimento (quelli che non visita mai nessuno) non sappiamo quasi nulla di loro. E questo è senza dubbio il primo, grandissimo merito del film: ti fa venire la curiosità di saperne finalmente di più. Ma davvero Mazzini era così schivo e indecifrabile? Davvero Crispi era così doppiogiochista? Davvero Orsini era così determinato? (chi lo ricorda Orsini? Era colui che organizzò a Parigi un terribile attentato a Napoleone III). E davvero le altre storie, quelle delle persone più comuni, sono state così tante e così intrecciate, così ambigue e al tempo stesso così forti? Esci dal cinema e vai ad aprire libri, o come minimo cominci a navigare su Wikipedia. E per questo è già un’opera impagabile.

Il secondo motivo è squisitamente cinematografico. Pur non essendo privo di difetti, è però un film come non se ne vedevano da tanto tempo. Fatto di personaggi, di ambienti, di ricostruzioni verosimili, di avvenimenti storici rivissuti attraverso precisi punti di vista. Ci si ritrovano qua e là, in una sorta di versione “seria”, le ricostruzioni storiche personalizzate del miglior Luigi Magni, e anche in alcuni momenti, asciugati da ogni retorica, echi dei primi magnifici film dei fratelli Taviani, soprattutto San Michele aveva un gallo e Allonsanfàn.

Altro motivo ancora (e ci fermeremo a tre solo per amor di brevità), è che si tratta di un racconto lontanissimo da ogni epica e da ogni agiografia. Anzi, è soprattutto un racconto fatto di dubbi e di incertezze, quelle di cui è sempre piena la storia fino a che non arriva qualcuno a farla diventare granitica e priva di sfumature. Tanto per intenderci, nessun “santino” alla maniera delle contemporanee fiction televisive, ma personaggi, anche i più grandi e i più famosi, indecifrabili fino all’ambiguità, capaci di commettere errori e anche di ripetere gli errori commessi.

Il racconto procede con ritmi alterni e non sempre coerenti, ma nel complesso trasmette grande potenza narrativa, vera passione per le storie che racconta e per i personaggi che ci invita a seguire, e senza toglierci comodamente dall’imbarazzo di dover scegliere chi condividere e chi no. Non rinuncia, giustamente, ad evidenziare le similitudini con il presente e anche l’origine di tanti mali che ancora affliggono la nostra patria, primo fra tutti la capacità di dividerci su tutto. Impossibile, ad esempio, non notare con sgomento come i nostri gloriosi bersaglieri, che entreranno da Porta Pia per dare all’Italia unita la sua vera e giusta capitale, sono gli stessi identici bersaglieri che otto anni prima in Aspromonte sparano sui garibaldini e giustiziano senza pietà i disertori che si erano uniti al Generale proprio per andare a liberare anche Roma. Con mirabile equilibro e notevole risultato filmico (aiutato anche dalle straordinarie musiche di Verdi, Rossini, Bellini) riesce a toccare le vere corde epiche praticamente subito dopo l’ultima scena, trasformando i cartelli finali che telegraficamente danno le ultime tappe storiche in un momento di rara emozione. Quasi che in quel momento si riesca finalmente a comprendere appieno che ciò a cui abbiamo assistito era davvero la nostra storia, una storia di cui, nel bene e nel male, dovremmo più spesso sentirci fieri e rispettosi. Un film generoso e attento, bello e importante, che alla fine, nel mettere in scena più dubbi che certezze, riesce comunque nel difficile e notevole intento di far risultare, fosse pure a livello inconscio, come nonostante tutto fossero già allora come sono ancora oggi assai più le ragioni per stare uniti in una unica Italia che quelle per dividersi in tante piccole e misere Italiette.

 

PS: come già anticipato nel nostro editoriale, il film sta andando benissimo al botteghino nonostante la miopia dei suoi stessi produttori italiani che ne avevano distribuite pochissime copie (Loro si che non ci credevano affatto). Fuori dal cinema, a Roma, alle tre e mezza del pomeriggio di domenica c’era una lunga fila, e sotto la pioggia battente. C’è ancora molta gente che vuole sentirsi raccontare storie non sceme, che vuole raccogliere l’invito a riflettere e anche a dubitare, se solo gli viene data la possibilità di farlo.

 

Noi Credevamo, di M. Martone
con L. Lo Cascio, V. Binasco, T. Servillo, F. Inaudi, L. Barbareschi, L. Zingaretti, G. Caprino, R. Carpentieri, I. Franek, A. Bonaiuto
Italia 2010

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