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Ma le frecce?

di Alessandro Borgogno - 20/5/2010

Ridley Scott e Russel Crowe (anche produttore) decidono di cimentarsi con la leggenda dell’arciere di Sherwood regredendo nel mito per raccontarne una sorta di origine, tanto che più correttamente il film si sarebbe dovuto chiamare “Robin Hood Begin”. Se questa scelta di fondo ci sta bene (e già ci sarebbe da discuterne) per il resto l’ennesimo filmone holliwodiano potrebbe dare al pubblico quello che è lecito aspettarsi: bella fotografia, grandi battaglie, bravi attori, paesaggi spettacolari e cosi via.

Il problema è che il tutto si esaurisce esattamente in questo, o forse in poco altro.

Per un regista come Scott, e anche per i mezzi profusi dalla produzione, era lecito però aspettarsi molto di più. Anche perché se si vuole rinverdire un mito, in qualsivoglia modo si decida di farlo, occorre comunque affrontarlo, smitizzarlo o esaltarlo, smontarlo e ricostruirlo, insomma farci i conti guardandolo in faccia.

E non eludendolo vigliaccamente coprendosi dietro il paravento di presunte verosimiglianze storiche, peraltro anche qui come sempre spensieratamente licenziose (prima fra tutte la collocazione temporale, se nella leggenda Robin Hood è sempre stato l’avversario di Giovanni Senza Terra che aveva usurpato il trono facendo credere Re Riccardo morto in battaglia, in questa versione storicizzata la trasformazione di Robin da soldato a fuorilegge viene spostata in avanti dopo la vera morte di Cuor di Leone e l’ascesa legittima al trono del suo fratello complessato e irascibile).

Ma seppure la verosimiglianza storica ha un interesse relativo, e possono averne invece le ricostruzioni delle armi e della vita medioevale inglese, in questo caso sicuramente accurate, quello che manca davvero a tutta l’operazione è proprio il mito. Omero lo aveva già capito prima di chiunque altro, e non era mica uno scemo.

Se si toglie il mito alla conquista di Troia, quello che resta è una battaglia interminabile e inutilmente sanguinosa. Se si toglie il mito all’impresa di Leonida e dei suoi Spartani, quello che resta è una rissa furibonda fra energumeni, dove trecento suicidi vengono massacrati da un intero esercito che quasi non si accorge di loro. E se si toglie il mito a Wyatt Earp (come fece a suo tempo Kasdan nel suo film con Costner), la sfida all’Ok Corral diventa una stupidissima sparatoria di trenta secondi. Magari è quello che è realmente accaduto, ma allora non è un film, né una storia, né tantomeno qualcosa che si avvicini ad una leggenda.

Certo le scene di battaglia sono sempre perfette, ma ormai sono sempre la stessa battaglia, e così vale per le dinamiche di sceneggiatura e per i personaggi. Sembra di assistere all’ennesima puntata di un immenso serial, dove Obi Wan Kenobi ormai vecchio e saggio, dopo essersi chiamato Gandalf e aver salvato le terre di mezzo dal potere dell’anello fatato, ora è cieco e fa da finto padre all’eroe di turno (ed è il personaggio di un sempre elegantissimo Max Von Sidow), dove c’è il cavaliere Jedi che si rivela essere cattivo e traditore, dove tre o quattro complessi edipici spuntano qua e là nel passato dei vari protagonisti, e dove l’eroe finisce per diventarlo quasi sempre suo malgrado.

Di Ridley Scott si vede solo il mestiere, ma nessuna delle intuizioni che quasi sempre riusciva a mettere nei suoi film (perfino nel polpettone storico del Gladiatore, e soprattutto, vista la tematica, nel suo primissimo gioiello I duellanti). Crowe funziona ma sembra sempre un po’ il solito, per di più per essere un Robin Hood agli inizi della sua parabola e destinato a volteggiare fra gli alberi della foresta di Sherwood davvero un po’ troppo appesantito. Piacevolmente in forma William Hurt in un personaggio (William Marshall) forse fra quelli storicamente più interessanti anche se non sfruttato del tutto (forse lo sarà, perché c’è da dire che per come è costruito il film c’è più di un sospetto su un possibile seguito). Chi davvero non fa rimpiangere il prezzo del biglietto è una spettacolare Cate Blanchette nella parte di Marian (o Marion), bellissima senza essere bella e volitiva fino all’esagerazione. Questo almeno un mito rivisitato davvero, forse più per merito dell’attrice che degli altri autori, e pazienza se una sceneggiatura un po’ svogliata alla fine non riesce ad evitare di trasformarla in Giovanna D’Arco. Imperdonabile ridurre i caratteristi (Little John e Fra Tac) al rango di comparse un po’ sceme, e ancor di più aver ridotto lo sceriffo di Nottingham, uno dei cattivi più belli della storia, ad un povero imbecille.

C’è poco da fare, se in due ore e mezzo di film Robin Hood lancia al massimo tre frecce, di cui solo una con una parabola davvero straordinaria (e quindi, rispetto al resto del film, inverosimile), è inevitabile uscire dal cinema con una insaziabile nostalgia per il Robin Hood in forma di volpe del vecchio cartone Disney, disegnato e bidimensionale, che al torneo di tiro con l’arco, indotto a sbagliare tiro da uno degli sgherri dello sceriffo, lanciava di scatto una seconda freccia al cielo che andava a correggere in volo la traiettoria della prima, centrando il bersaglio con il più incredibile dei tiri, vincendo la gara, ottenendo così la mano di Marian per essere subito dopo arrestato e gettato in cella, cella dalla quale si sarebbe poi liberato per andare a…

 

Robin Hood, di R. Scott
con R. Crowe, C. Blanchette, M. Von Sidow, W. Hurt
USA 2010

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