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Bentornato dottor Jones!

di Alessandro Borgogno - 3/6/2008

Non si poteva mancare. Indiana Jones che torna sul grande schermo a quasi vent’anni (diciannove) dalla sua ultima avventura è un evento di per sé, indipendentemente da cosa si pensi dell’avventuroso archeologo creato da Lucas e Spielberg e da quanto ci piaccia o meno quel tipo di cinema.

E con i suoi 65 anni, tali e quali nella realtà come nella finzione, il dottor Jones non si tira indietro e non delude i suoi fans. Gioca solo appena con l’età e l’inevitabile invecchiamento fisico, ma poi, complice Harrison Ford che ancora si cimenta in molte scene d’azione senza la controfigura, non risparmia nessuno dei numeri classici a cui questo colossale fumetto cinematografico (forse l’unico vero, a dispetto dei tanti supereroi e simili che dovrebbero esserlo ma non riescono mai a riportare sullo schermo l’effetto delle avventure disegnate) ci ha ormai abituati nei suoi quasi trent’anni di peripezie.

Alla sua prima uscita nel 1981, all’inseguimento dell’Arca dell’Alleanza fra Nepal ed Egitto, l’archeologo con cappello e frusta ridisegnò definitivamente le coordinate del cinema d’avventura, i suoi ritmi, il suo tono, le sue tematiche e perfino i suoi colori. Da allora tutti sono stati suoi figli e nipoti, dai pirati disneyani di Jonnhy Depp alle avventure da videogioco di Lara Croft così come alla finta fantascienza di Matrix e agli svariati filmoni catastrofici dell’ultimo ventennio, tutti debitori e tutti naturalmente inferiori. Perfino gli eroi Marvel, da Spider Man ai Fantastici 4, per riportare un po’ di fumetto sullo schermo hanno dovuto attingere non dalle loro tavole colorate ma dal cinema che Lucas e Spielberg avevano inventato e riscritto, non ricalcando con la camera i disegni, ma fumettizzandolo dall’interno.

E sì perché, che piaccia o no, si ha a che fare con due geni del cinema che hanno da soli riscritto gran parte della grammatica e della sintassi della settima arte, e Indiana Jones è la creatura che riassume meglio le caratteristiche di entrambi. Se Star Wars è interamente Lucas ed Incontri ravvicinati del terzo tipo è tutto e solo Spielberg, nelle avventure dell’archeologo americano i due si sono da sempre trovati fusi in maniera indissolubile. C’è tutta la mescolanza di generi tipica di Lucas, dal western alla fantascienza al mistery alle avventure piratesche e ai cartoon, e c’è tutto il talento tecnico e visivo del miglior Spielberg.

E l’ultimo divertimento dei due non fa eccezione, certo ormai meno stupefacente e senza dubbio non più alla ricerca dell’originalità peraltro non più riproducibile, ma sempre con il ritmo, con l’ironia, con il senso di avventura e con i virtuosismi che sembrano non esaurirsi mai. Tanto per dirne una, è dal suo primissimo film (Duel, 1971) che Spielberg ci ripropone inseguimenti fra automobili e camion, e ogni volta ci inchioda lo sguardo, come bambini di fronte all’ennesima ripetizione di uno scherzo che sanno a memoria, così come sono ormai centinaia le inquadrature dove qualcosa entra, da sotto o di lato, e ogni volta il suo modo di riempire lo schermo con ciò che arriva da fuori riesce ad incantarci.

Non ci mettiamo qui a raccontare la trama, tanto è ovviamente l’ennesima variazione dei temi che ormai conosciamo, come i cartoni di Willy Coyote. C’è da dire però che nella maggior parte dei casi la magia riesce a ripetersi proprio quando, volontariamente, Spielberg continua a fare ricorso al cinema più classico, fatto di stuntman e scene dal vero, e se ovviamente utilizza a profusione anche gli effetti digitali, lo fa dove gli serve davvero, e non dove renderebbero solo più facile il lavoro. Li usa per un’esplosione atomica, per visualizzare catastrofi naturali inenarrabili o per un magnifico assalto di miliardi di ferocissime formiche giganti, ma poi le cascate amazzoniche dell’Iguazù le inquadra così come sono, perché sa che la Natura vera non vuole alcun effetto speciale, ed infatti è proprio lì, per un attimo, che ci lascia di nuovo a bocca aperta.

E rimane ancora insuperabile, l’incorreggibile ragazzone di Cincinnati, nella sua padronanza nell’architettare e tenere sotto controllo le scene d’azione di qualunque complessità (e inverosimiglianza) senza mai far perdere allo spettatore la cognizione dello spazio, del tempo, delle dinamiche, della topografia del luogo e di tutti gli elementi che servono a sapere in ogni momento cosa sta accadendo. E’ un giochino che ormai sembra fare ad occhi chiusi, e che invece nasconde talento e capacità visive che ancora pochi possono vantare.

La troupe di attori segue i due grandi burattinai George e Steven con la massima disciplina e divertendosi con loro. Primo fra tutti naturalmente Harrison Ford, visibilmente e comprensibilmente affezionato ormai al personaggio che l’ha fatto diventare una star. Simpatico il recupero di Karen Allen, con la quale si replicano i duetti alla Grant-Hepburn. Adeguatamente autoironica la new entry Shia LeBeouf, soprattutto nella sua prima apparizione come fotocopia di Marlon Brando in motocicletta. Simpaticamente partecipe John Hurt, ma soprattutto imperdibile Cate Blanchett nei panni del cattivo ufficiale sovietico, in un irresistibile look da dominatrice quasi sadomaso.

Naturalmente tutto presuppone la disponibilità del pubblico a giocare e a divertirsi con i due amici cresciuti coltivando in modo maniacale la loro parte fanciullesca ed arrivati così ad imporla al mondo intero. Ed è proprio dove i due mostrano di divertirsi di più, cioè nella ricostruzione dei luoghi, dei tempi e dello spirito degli anni che si divertono a riattraversare, che il film dà probabilmente il meglio di sé, a volte in particolari che forse verranno notati solo nelle visioni successive. Dai fumettoni di avventura degli anni '30 si passa alla guerra fredda, e la saga viene perfettamente riadattata agli anni ’50 (per la precisione 1957), con tutte le paranoie dell’epoca, gli oggetti, i luoghi comuni, i miti e le leggende metropolitane e antropologiche di quegli anni. Come sempre di grande impatto l’inizio, che ci riporta autorefenzialmente nel capannone deposito dove si concludeva il capostipite della saga, e notevole l’arrivo in una cittadina fantasma popolata da manichini (e non vi diciamo perché, ma l’epoca c’entra molto), e soprattutto l’intero mistero da indagare e scoprire che tiene pretestuosamente in piedi tutta la vicenda è quanto di più tipicamente anni ’50 si possa immaginare. Innumerevoli le autocitazioni da tutti i film precedenti dei due, e chissà quante ce ne sono sfuggite, ma ancor più spinta la definitiva mescolanza di tutti i temi e di tutte le trame finora esplorate dalla coppia di autori, quasi a far convergere in una unica storia tutte le loro fissazioni e le loro passioni giovanili mai esaurite.

Il film, va detto, mostra qua e là segni di stanchezza e qualche ripetizione, probabilmente inevitabili e comunque sopportabilissime (sono due ore che scivolano via come un cartone della Warner).

Per farla breve, il nuovo (ultimo? chissà…) Indiana Jones non delude e non esalta, ma è esattamente quello ti aspetti.

E non è che sia poco.  

 

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, di S. Spielberg
con H. Ford, C. Blanchett, K. Allen, S. LaBeouf, J. Hurt 
USA 2008

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