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Armenia, Lacrime e Sangue

di Alessandro Borgogno - 12/4/2007

Ci sono film per i quali è probabilmente più importante il loro esserci dei risultati artistici che riescono a raggiungere. La masseria delle allodole, dei fratelli Taviani, è uno di questi.

Il suo enorme merito è di portare davanti ai nostri occhi una delle più atroci tragedie del secolo scorso che ancora oggi viene sistematicamente occultata dai governi e dalla storia, e cioè il genocidio del popolo armeno da parte dei nazionalisti turchi durante la prima guerra mondiale. Altro merito è quello di sfruttare l’iperrealismo tipico dello stile dei due fratelli registi per raccontarci questa atroce storia nel modo più asciutto e al tempo stesso più tragico possibile, rifuggendo dallo spettacolarizzare la violenza, ma rifuggendo anche da ogni reticenza sugli aspetti peggiori e più crudeli. La forma rappresentativa dei registi toscani permette di seguire la storia senza mai dubitare un solo istante sulla veridicità di ciò che ci viene raccontato, e questo, per una storia che potrebbe facilmente dare adito a pensieri di esagerazione, semplificazione o eccessiva stilizzazione è un risultato notevole e per nulla facile, che probabilmente ben pochi altri artisti sarebbero in grado di raggiungere.

Non mancano i difetti al film, alcuni tipici delle prove meno brillanti dei Taviani. Una certa staticità teatrale di alcune situazioni, una ricerca di alcuni passaggi lirici che per loro stessa natura possono dare i brividi quando riescono ma possono infastidire quando non riescono al meglio. E soprattutto, problema e difetto comune a molti film che tentano di affrontare situazioni analoghe, la rappresentazione di certe atrocità risulta sempre essere contemporaneamente troppa e troppo poca, quasi a ribadire come oltre un certo livello di crudeltà e di disumanità qualunque rappresentazione sia inadeguata, inefficace, per sua natura non rappresentabile.

Un problema che si è sicuramente posto anche Spielberg, che per rappresentare lo sterminio ebreo da parte dei nazisti ha scelto di comunicare l’assoluta noncuranza degli omicidi, il totale degrado a zero del valore attribuito alla vita umana, ma si è fermato sulla porta dei forni crematori decidendo che l’orrore finale non era rappresentabile.

Al di là dei difetti, dunque, La masseria delle allodole resta un film da vedere, anche se alla fine dovesse non piacere o non convincere. Da vedere per il pugno allo stomaco che si riceve nello scoprire ancora una volta la disumanità di cui è capace la razza umana. Da vedere per alcune scene di grande emozione e di sincero trasporto ottenute con i mezzi cinematografici più semplici e più lineari. Da vedere perché è ancora un cinema fatto di facce, e in alcuni casi gran belle facce, di vecchi e di giovani, segnati comunque dalla vita e dalla realtà. Da vedere perché si esce finalmente con la voglia di saperne ancora di più su cosa è davvero successo in Turchia negli anni 1915 e 1916, dove si trova esattamente l’Armenia, che fine hanno fatto quegli Armeni, cosa ne è rimasto oggi di tutto questo.

Un film doloroso e coraggioso, e con l’immenso pregio di non essere presuntuoso. Un coraggio e un desiderio di colpire a fondo che su un piano totalmente diverso, a quanto si sente dire, si può trovare attualmente anche nel contemporaneo Centochiodi di Ermanno Olmi. Stupisce solo un po’ che film coraggiosi e poco conformisti debbano ancora arrivarci da registi ultrasettantenni e non dai tanti giovani di cui si parla di continuo.

 

La masseria delle allodole, di P. e V. Taviani
con P. Vega, M. Bleibtreu, A. Dussollier, A. Molina
Italia 2007

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