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La montagna che partorisce l'anellino

di Alessandro Borgogno -24/11/2006

Con la dovuta calma, e con la scusa della visione congiunta con mio figlio, ho finalmente (si dovrebbe dire così) visto tutta la mastodontica trilogia de Il signore degli anelli di Peter Jackson, tre filmoni di una media di tre ore ciascuno, saccheggiatori di Oscar negli scorsi anni, e non solo di quelli - scontati - per gli effetti speciali.

Cerco di elencare subito tutti insieme i pregi dell’opera.

E’ estremamente fedele al romanzo, e in alcuni momenti sembra davvero abbia avuto come target ideale i conoscitori e sopratutto i 'fissati' della storica trilogia di Tolkien.

E’ visivamente e soprattutto paesaggisticamente spettacolare, e se dovessi identificare il suo maggior pregio lo troverei nella sua scelta netta e rigorosa di rifarsi ad una estetica quasi ottocentesca, senza cedere a mode recenti, e nell’idea stessa di realizzare una produzione colossale sul modello dei grandi film 'esotici' degli anni Trenta, quasi un’idea di cinema di altri tempi, quando il cinema stesso aveva il ruolo di stimolare l’immaginario e trasportare gli spettatori in luoghi immaginari e fantastici (non è un caso che subito dopo lo stesso Jackson si sia impegnato in un nuovo remake di King Kong, il più fedele all’originale capolavoro del ‘33 di Cooper e Shoesdack).

Il cast è azzeccatissimo, dai protagonisti fino all’ultima comparsa. Gli effetti visivi sono perfetti ma senza invadenza tecnologica. Il personaggio di Gollum, straordinario nel romanzo come nel film, è interamente realizzato al computer ma è in assoluto il più espressivo e coinvolgente dell’intera galleria. Alcune scene di duelli e di battaglia sono indubbiamente notevoli, soprattutto l’assedio che conclude il secondo film, e nonostante le possibilità ormai offerte dalla tecnologia l’autore non si è risparmiato vere scene di battaglia con molte comparse e confronti fisici “reali”. E ogni tanto anche qualche momento realmente 'd’autore', fra i quali il migliore è un minuto circa del terzo film: l’assalto suicida della cavalleria di Gondor, che prende la colonna sonora dalla canzoncina che uno degli Hobbit canticchia ad un re impazzito che mangia indifferente dopo aver mandato il figlio verso una morte certa.

Alla fine, non si può dire che tutta la faccenda non sia adeguatamente divertente, e che anche i momenti meno riusciti sono comunque al di sopra della media, però al termine della visione c’è qualcosa che lascia dubbiosi.

Credo di poterla sintetizzare in un unico concetto: perché nove ore e tre film?

Voler restare il più possibile fedele al romanzo non deve per forza significare non scartare nessuna pagina del (lunghissimo) racconto. Da che il cinema è cinema (e da che Griffith, Lang, Hitchcock e qualche altro ne hanno scritto la grammatica), il suo principale scopo è quello di concentrare eventi, emozioni e situazioni per “rendere più intensa la vita” [F.Truffaut].

Dilatarne a tutti i costi i tempi finisce per diventare quasi un tradimento del concetto stesso che lo ha creato, lo ha fatto diventare un’arte e ne giustifica ancora la grandezza.

Per non parlare poi della sgradevolissima sensazione di vedere finire i primi due film come fossero puntate di una fiction televisiva. Nel secondo episodio, Le due torri (tra l’altro secondo me il migliore), addirittura la sensazione finisce per essere quella di (perfette parole di Mereghetti) “aver assistito alla più costosa sequenza di raccordo della storia del cinema”.

In questo modo alcune cose finiscono per diventare davvero inutilmente dilatate. Ad esempio i due Hobbit che vanno in giro trasportati inutilmente dal grande albero semovente per un intero film, il cammino interminabile di Frodo, Sam e Gollum mentre altrove o imperversano battaglie che si risolvono in pochi minuti oppure si vivono dei momenti di pausa apparentemente interminabili nei quali sembra che mentre alcuni eroi continuano a viaggiare instancabili altri se ne stiano giornate intere senza far nulla.

Sembrerebbe che col trascorrere delle ore il gigantismo e la dilatazione abbiano finito per sfinire anche lo stesso regista, tanto che la battaglia finale, al termine del terzo film, lascia la sensazione di passare in modo troppo semplice e troppo velocemente, così come la definitiva sorte del malefico anello del potere. La classica montagna che partorisce il topolino, immagine non del tutto metaforica, essendo proprio le viscere infuocate del Monte Fato il luogo della genesi e della distruzione del piccolo gioiello.

E alla fine sfugge, addirittura, la vera portata del potere dell’oggetto protagonista, quasi che nello sforzo di farci vedere tutto il possibile sia mancata la capacità visiva e narrativa di rappresentare davvero la potenza dell’anello fatato o in alternativa di saperla evocare per farcela immaginare in modo efficace.

In definitiva un’operazione comunque notevole, forse encomiabile e apprezzabile negli intenti, ma che proprio nel coraggio di cui necessitava finisce per trovare il suo limite più grande.

Se anziché moltiplicare tempi e ritmi regista e sceneggiatori avessero trovato la forza, per la Hollywood di questi tempi quasi eversiva, di concentrare tutta la storia in un unico film fosse pure di quattro ore, ma facendo davvero la fatica necessaria a scartare, ridimensionare, ricollocare episodi senza perdere il senso di tutta la storia, avremmo probabilmente avuto un capolavoro autentico, capace di ubriacare lo spettatore e di immergerlo davvero in un mondo straordinario e traboccante di fantasia e immaginazione, e trasformando la visione del film in una autentica esperienza visiva.

Ennesima occasione persa.

 

Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello, 2001
Il Signore degli Anelli – Le due torri, 2002
Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re, 2003
regia di P. Jackson
con V. Mortensen, L. Tyler, C. Blanchett, E. Wood, S. Astin, I. McKellen, C. Lee, S. Bean, I. Holm, B. Boyd, O. Bloom

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