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Ecco il punto di Ilaria Scala - 24/10/2006 Se Il diavolo veste Prada fosse solo un film di cassetta ben impacchettato, costruito a tavolino con la formula infallibile romanzo-di-successo + location-glamour-newyorkese + colonna-sonora-esaltante-e-ammiccante + costumi-trendy + comprimari-azzeccati-e-camei-illustri + storia-d’amore + scalata-al-successo-con-perdita-dei-valori + morale-edificante, potrebbe essere archiviato nello scaffale dei film di consumo, ottimo per le serate tra donne in cui non si vuol pensare a niente che pesi più di un foulard di seta. Il punto è Meryl Streep. Che entra in scena dopo cinque minuti, inquadrata a partire dai piedi, e che da quel momento domina la pellicola senza scampo; rendendola semplicemente indimenticabile. Cattiva, sadica, insopportabile, assurda. Eppure così maestosa. Elegante. Umana. Per Anne Hathaway è come giocare a tennis con un avversario fortissimo: non può vincere, ma il suo stile se ne giova assai. Il diavolo veste Prada è la storia di una giornalista alle prime armi, in gamba ma esteticamente incolta, che viene assunta come assistente della spietata direttrice della rivista di moda più quotata, influente e rispettata del mondo (direttrice e rivista reali a cui la vicenda si ispira sono, rispettivamente, Anna Wintour e Vogue). Ma la storia è solo un pretesto per presentare una sfilata di abiti, accessori, tipi umani, battute memorabili, icone dello stile. E tutto vi si svolge – deliziosamente e fluidamente – secondo copione. Il punto è Meryl Streep.
Il diavolo veste Prada,
[The Devil wears Prada], di D. Frankel |