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Plastilina Thriller

di Alessandro Borgogno - 17/3/2006

Non capita spesso di recensire un vero gioiello, quindi sono contento.

E se non si può parlare proprio di capolavoro, probabilmente è solo perché il capolavoro c’è già stato, qualche anno fa. Si intitolava I Tecnopantaloni (The Wrong Trousers, 1993), sempre con gli stessi protagonisti, ed era un cortometraggio di venti minuti, assolutamente folgorante per regia, inventiva, azione, suspense e comicità.

Loro sono Wallace & Gromit, un demenziale inventore ghiottissimo di formaggio e il suo cane, naturalmente il più riflessivo ed assennato dei due. I due pazzi che gli danno vita dal 1989 sono Steve Box e Nick Park, due animatori inglesi che nell’era del digitale si sono messi in testa di fare film con la tecnica dell’animazione a passo uno, modellando meravigliosi pupazzi in plastilina e muovendoli fotogramma per fotogramma in piccoli mondi ricostruiti alla perfezione. Per chi ha un po’ di anni, si vide per la prima volta una cosa del genere nelle storiche pubblicità della Fernet Branca a Carosello.

Quand’ero molto giovane ho fatto anch’io alcune stupidaggini con questa tecnica, con una piccola cinepresa Super8 muovendo pupazzi e scattando un fotogramma per volta ottenendo ogni 24 fotogrammi un secondo di filmino. E’ una follia. Una follia che i due genialoidi inglesi hanno innalzato fino alla perfezione con alcuni straordinari cortometraggi che hanno fatto man bassa di Oscar (quelli che nessuno mai dice e che nessuno ci fa mai vedere), per approdare poi anche grazie ai denari della DreamWorks di Spielberg al loro primo lungometraggio, lo straordinario Galline in fuga del 2000.

Ora, giustamente, hanno concesso l’onore e l’onere del film lungo anche alle loro due più simpatiche e stravaganti creazioni, e così possiamo ammirare, dimenticandoci dopo pochi istanti che stiamo guardando pupazzi di plastilina, il coraggioso e saggio cagnolino e il suo padrone tanto genialoide quanto idiota alle prese con una storia demenziale quanto merita, con una cittadina prima in preda all’ansia dovuta a piccoli e voracissimi conigli che possono far strage delle loro gigantesche verdure coltivate per la “Grande fiera dell’ortaggio gigante”, e poi in preda ad autentico terrore dopo che una serie di avvenimenti altrettanto demenziali provocano la comparsa di un gigantesco e mostruoso divoratore di ortaggi che semina il panico fra le villette e gli orti dei pavidi cittadini.

Box e Park, fin dai primissimi lavori, hanno sempre dimostrato di conoscere alla perfezione grammatica e sintassi del miglior cinema, e di tutti i generi che regolarmente saccheggiano ricavandone citazioni e parodie irresistibili, e trattano i loro piccoli e assurdi pupazzi non solo con la dignità che comunque meritano, ma narrando le loro vicende con la stessa mano che si può trovare (e non sempre) nel grande cinema, sfoderando una regia sostanzialmente perfetta che raramente si trova in molti film più “classici”.

Per il resto, impossibile riportare la trama e tantomeno restituire l’atmosfera di gag e sovrapposizioni di generi (non solo cinematografici ma anche letterari) che riempiono il film dall’inizio alla fine. Si può magari citare giusto un paio di momenti come puro esempio estraendoli da una sequenza ininterrotta di invenzioni geniali e dementi allo stesso grado che lasciano alla fine l’idea che rivedendo più volte il film si potranno con tutta probabilità scoprire molte altre cose che sono sfuggite alla prima visione.

Il primo è un momento visivo. A seguito di un intervento di “deconiglificazione” su un campo, grazie ad una assurda macchina inventata dai nostri eroi, una miriade di coniglietti vengono risucchiati dal terreno e convogliati (senza alcuna violenza, caratteristica orgoglio della ditta) dentro una enorme ampolla di vetro dove fluttuano nell’aria con movimenti morbidi, come trasportati da un vento lento e dolcissimo, e con delle espressioni non descrivibili. In quel momento verrebbe voglia di fermare il film, montare la sequenza “ad anello” e restare almeno un quarto d’ora a guardare solo quello: assurdi coniglietti che assurdamente svolazzano nell’aria.

Il secondo è un momento sonoro, una citazione probabilmente molto inglese che credo possa essere colta solo da veri fissati (ed essendolo io, la regalo ai nostri lettori). In una scena di pura suspense in perfetto stile horror anni cinquanta, Gromit il cane è al volante dell’auto (naturalmente guida benissimo), fermo in una strada notturna. Silenzio, vento e insegne che sbattono. Wallace si è allontanato e non torna, tutta la storia è già dominata dalla presenza dei conigli, il gigantesco e inquietante “Coniglio mannaro” si è già materializzato, si intuisce che sta per accadere qualcosa di brutto, e che accadrà. Per distrarsi Gromit accende l’autoradio, sintonizza, e per un breve attimo si sente una canzone alle note della quale Gromit alza gli occhi al cielo e spegne la radio rassegnato facendo ripiombare la scena nel silenzio. E’ solo un attimo, ma è riconoscibile. E’ Art Garfunkel che canta “Bright Eyes”, colonna sonora di un altro film inglese di animazione del 1978, tratto da uno straordinario romanzo omonimo, Watership Down, che altri non è che La collina dei conigli.

Meravigliosa, irresistibile finezza per i pochissimi che sono così profondamente maniacali da coglierla, almeno fuori dalla Gran Bretagna.

Difatti in tutto il cinema abbiamo riso di un indescrivibile gusto soltanto in due. Uno ero io, e l’altro mio figlio Francesco, otto anni, per mia colpa evidentemente anche lui già irrimediabilmente cinefilo.

E aggiungerei, a onore e merito dell’impagabile Gromit, probabilmente ora anche cinofilo.

 

Wallace & Gromit - La maledizione del coniglio mannaro, di S. Box e N. Park
USA 2005 

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