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Ma siamo sicuri che è cinema?

di Alessandro Borgogno - 12/7/2005

Diceva Sergio Leone, alla domanda sul suo modo di rappresentare la violenza da Per un pugno di dollari in poi: “Non e' che nei film americani la gente non morisse. Moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell'idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e può farlo soltanto attraverso l'esistenza fisica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere amplificato, si deve vedere il sangue, si deve capire il danno provocato da un foro di pallottola. E' realismo critico, con un preciso punto di vista.

Ecco, alla fine questa è la frase, o meglio ancora il concetto, che più mi è venuto in mente dopo aver visto Sin City, sorta di fumettone a sei mani (un po’ troppe per il risultato) dove la violenza è talmente finta, esagerata e poco realistica da finire per ottenere l’effetto opposto, cioè la negazione della stessa in quanto atto immorale, e quasi la sua esaltazione stilistica in quanto atto in sé, senza alcun giudizio morale che la accompagni.

Sinceramente un po’ troppo, anche perché l’effetto alla fine è quello di aspettarsi continuamente il gesto o l’atto efferato senza neanche più essere in tensione. Anestesia quasi totale.

E senza giustificazione alcuna. Non ritengo infatti sia sufficiente ispirarsi ad un fumetto per giustificare la rappresentazione di qualunque spappolamento di membra e di cervella, anche perché per farlo bisogna essere davvero bravi, e sicuramente non lo è Rodriguez e neanche Miller (che forse lo sarà come fumettista ma sicuramente non come co-regista). Né salva la situazione l’intervento di Tarantino, che invece con Kill Bill volume 1 e volume 2 aveva, in quel caso sì, realizzato un fumettone autentico, molto più fumetto dei vari Hulk e Spiderman degli ultimi anni, e dove le stesse esagerate esplosioni di violenza avevano almeno un senso e una dimensione, perfino morale volendola cercare. Ma non sarà un caso se per Kill Bill (soprattutto per il secondo) Tarantino ha applicato, in modo evidente, la lezione stilistica e anche la metrica temporale, guarda un po’, proprio di Sergio Leone.

A conti fatti direi che proprio non ci siamo. Se appena visto il film sono uscito dalla sala vagamente divertito (ma già parallelamente annoiato per l’eccessiva tirata in lungo di molte scene e di tutta la storia), più ci ripenso e più giro il pollice verso il basso.

Niente di davvero significativo da rilevare sul piano filmico. La fotografia è bella ma dopo mezz'ora stufa, il bianco e nero splendido ma dopo un po’ noioso anch’esso, l’idea di colorare solo alcuni elementi, ogni tanto, fa il suo effetto nella prima scena e dalla seconda in poi disturba soltanto (molti, molti anni fa l’aveva già fatto Coppola in Rusty il selvaggio (Rumble Fish), casualmente proprio con Mickey Rourke, ma aveva usato l’idea, in senso drammatico, in una sola scena, così come ha fatto Spielberg in Schinder’s List. Insomma, se l’idea trova un suo senso è un conto, se è soltanto stile resta esercizio vuoto e privo di consistenza).

Che altro dire? Scopiazzamenti qua e là: Barton Fink nello svegliarsi la mattina e trovarsi una donna morta nel letto, a sua volta elegante eredità dell’hitchcockiano Club dei 39; Pulp Fiction nella situazione “Tocca far sparire i cadaveri”, e soprattutto nella struttura a incastro delle tre storie, anch'essa, qui, molto più forzata; Fuga da New York nella rappresentazione della città che si autogestice al di fuori dalla legge.

Purtroppo neanche Tarantino resiste al saccheggio cinefilo, e in una delle scene affidate alle sue cure si aggrappa al finale de La iena (The body snatcher) , grandissimo horror anni quaranta con Boris Karloff, diretto da Robert Wise e tratto da un magnifico racconto di L.S. Stevenson, quando il trafugatore di morti si ritrova in carrozza sotto il temporale con il cadavere a fianco che sembra rianimarsi.

Unica possibile nota di stravagante originalità, che poteva magari essere interessante, è proprio l’autogestione tutta al femminile del quartiere vecchio della città, con prostitute armate e sanguinarie che si governano e soprattutto si difendono da sole. Anche qui però, guarda un po’, c’è bisogno dell’intervento del maschio supermacho altrimenti non se ne esce.

E poi, a dirla tutta, non basta riprodurre fotografia e situazioni da fumetto per fare un fumetto. Bisogna confrontarsi seriamente con il linguaggio del fumetto, accettarne la profonda diversità rispetto alla grammatica e alla sintassi cinematografica, e poi trovare una soluzione, se si è capaci. Altrimenti si riproduce, come in Sin City, una lingua in un'altra facendone una pura traduzione letterale, cioè senza senso.

In un fumetto ci si può fermare a guardare una tavola il tempo che si vuole, si può tornare indietro, si può chiudere e riprendere domani se ci siamo stancati, in un film no. Con questa diversità fondamentale, tanto per dirne una, gli autori non si sono minimamente confrontati, e ancor meno con la fissità dell’inquadratura, la segmentazione del racconto in tante piccole immagini, la totale assenza di movimenti di camera che è la natura stessa della narrazione a fumetti e di cui invece il film fa uso e abuso come fosse un film qualunque, e spesso solo perché la tecnologia digitale lo permette.

In conclusione, ho idea che questo genere di film rappresentino per il cinema un ottimo vicolo cieco. Giudizio finale: bah.

 

Sin City, di F. Miller e R. Rodriguez (con un contributo di Q. Tarantino)
con M. Rourke, B. Willis, R. Dawson, B. Del Toro, C. Gugino, J. Alba, R. Hauer, E. Wood – USA 2005 

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