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Le incrinature di una vita perfetta di Ilaria Scala - 7/6/2005 Evviva James Ivory che non si vergogna di rappresentare il Bello in tutte le sue forme: le meraviglie della natura, che sia la brughiera inglese o la campagna romana, le opere d'arte di ogni genere, quadri, sculture o pezzi d'antiquariato, l'eleganza degli interni del primo Novecento in Inghilterra, la preziosità degli abiti e delle acconciature, la cura dei dettagli; ma, soprattutto, la finezza dei rapporti psicologici, le relazioni sottili e impercettibili, gli sguardi, i sospiri, le parole sospese o troncate dall'emozione, le reazioni dell'animo umano che bisogna scavare molto a fondo per portarle in superficie, laddove - soltanto - la macchina da presa può riprenderle. Evviva James Ivory che non si vergogna di costruire cornici di gran lusso e di riempirle, poi, di sostanza. Ne La coppa d'oro il regista inglese, che ci aveva abituato alle saghe psicologiche tratte dai romanzi di Forster, e che si è dimostrato meno abile con le trame "dei giorni nostri" (leggi il debole Le divorce, 2003), sceglie i tormenti familiari di un'opera di Henry James e li ritrae con passione e disinvoltura con la stessa grazia con cui seleziona le inquadrature, arreda gli interni e veste gli attori. Può un oggetto banale come una coppa di cristallo e oro diventare una metafora della vita di una giovane donna americana, trapiantata con il padre ricco collezionista nell'Inghilterra vittoriana e sposata ad un nobile romano spiantato? La giovane scoprirà a sue spese che anche la vita più dorata e perfetta in superficie può nascondere orrende incrinature che ne minano il valore. Ma una volta scopertolo perderà l'ingenuità e saprà riscattarsi. In questo balletto di tradimenti e delusioni, attaccamenti morbosi e slanci innaturali, nessuno è innocente e nessuno è colpevole. Tutti si sforzano di essere felici ed egoisti quel tanto che basta a scatenare sensi di colpa senza via d'uscita.
La coppa d'oro [The
Golden Bowl], di J. Ivory |