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Morte consapevole di una democrazia di Alessandro Borgogno - 25/5/2005 Non mi potevo esimere da Star Wars Episodio III. Anzitutto sarebbe stato troppo snob, poi in ogni caso sono un fan di quelli della prima ora (1977 – Guerre Stellari al cinema Golden di via Taranto a Roma, ora sala Bingo regolarmente deserta), e poi come si fa a non recensire in qualche modo l’ultimo capitolo di un racconto che, nel bene e nel male, ha segnato la storia del cinema? Sgombriamo subito il campo da un primo possibile equivoco: La Vendetta dei Sith è un bel film (il più bello di questa trilogia, così come Episodio V – L’impero colpisce ancora, è il più bello della prima e forse rimane il migliore di tutta l’opera, non fosse altro che per il colpo di scena più clamoroso della storia del cinema),e lo è anche per chi non è un fan accanito, pur costringendo i non-fissati a faticosi collegamenti oppure a dover lasciar correre un sacco di riferimenti oscuri. Lo è anzitutto perché sono due ore e passa di spettacolo visivo assolutamente al di sopra di qualsiasi altro film del genere si possa trovare in giro. Spettacolo di luci, di forme e di composizioni che riempiono gli occhi, costruzione di immagini e movimenti e sguardi assolutamente impeccabili. Volendo esagerare, per dare almeno l’idea mettiamola così: se guardiamo un quadro di Caravaggio e conosciamo la sua storia, quella del periodo, la simbologia nascosta dietro a ciò che rappresenta la scena e dietro a ciascun personaggio, sicuramente riusciamo ad apprezzare tutte le sfumature e tutti i significati, ma anche se non ne sappiamo niente riusciamo ugualmente a godere della forza delle immagini, del movimento, dei colori, delle masse e dei rapporti fra un forma e l’altra. Non potendo dilungarmi sui mille possibili aspetti del film (essendo oltre tutto, per sua stessa natura, un film che non può vivere da solo ma sempre e comunque indissolubile dagli altri cinque), cercherò di accennarne soltanto alcuni. Lucas non è nato come uno dei più grandi talenti registici della storia, ma credo che, consapevole dei suoi limiti, abbia saputo diventarlo grazie ad un approccio molto più “ampio” rispetto a tanti altri. Non so se farò rabbrividire qualcuno, ma credo che molto più che ad altri vada accostato a D.W. Griffith, per la capacità di sperimentare e padroneggiare la tecnica e la tecnologia, per la capacità di inventare forme visive e forme narrative che hanno comunque segnato indelebilmente tutto il cinema dopo di lui, e, badate bene, non solo il cinema di genere. Non si potrà mai riconoscere Lucas da “come” inquadra qualcosa (come è invece per qualsiasi inquadratura di Hitchcock, ad esempio) ma lo si può sicuramente riconoscere da “cosa” mette nell’inquadratura. Dal punto di vista del racconto poi, tutta la saga è comunque innegabilmente l’idea e l’opera di un talento narrativo geniale. Una storia che comincia dalla metà, va avanti fino alla fine (presunta) e poi torna indietro per ricominciare dall’inizio come in un immenso flashback, costringendoti a rivedere e a reinterpretare in mille modi anche ciò che hai già visto e rivisto decine di volte, non può essere altrimenti definita se non un’idea geniale, che per di più termina con la vittoria del Male ma al tempo stesso chiudendo un cerchio che porta inevitabilmente a ricominciare dal primo film, innescando un percorso di “visione ciclica” che potrebbe andare avanti all’infinito, e che in sostanza dilata nello spazio di trent’anni e nell’arco di sei film ciò che in altro modo, ma con analoga intuizione narrativa, aveva fatto Sergio Leone nelle tre ore e quaranta di C’era una volta in America [già recensito su queste pagine]. E non sembri un paragone così strano quello con Leone, e nessun dubbio sulla conoscenza e anche l’ammirazione che ne ha Lucas, perché soprattutto guardando quest’ultimo film non si può fare a meno di notare l’uso e la padronanza del continuo passaggio, a fini drammatici, dalle inquadrature che comprendono spazi sconfinati e mille elementi ai primissimi piani che a volte tengono nell’immenso schermo solo gli occhi del personaggio di turno. E fra i mille rivoli che il film, anzi che i films delle due trilogie dispiegano e intrecciano, mi piace segnalarne in particolare uno, assai più marcato ed evidentemente consapevole in questa seconda trilogia e che trova il suo compimento in quest’ultimo maestoso capitolo: il tema politico. Fin da Episodio I – La minaccia fantasma, è estremamente interessante leggere i meccanismi della nascita e dell’affermazione di una dittatura ai danni della democrazia, dal primo incarico democraticamente assegnato ad un cancelliere apparentemente fedelissimo alla Repubblica al conferimento a quest'ultimo di poteri speciali, mentre spinte separatiste e problemi di ordine pubblico rendono sempre più apparentemente necessaria una maggiore spinta autoritaria, e successivi complotti e creazioni di eserciti speciali e poi finti complotti creati ad arte per ottenere gli obiettivi politicamente voluti, e così via in un meccanismo senza via d’uscita, fino alla proclamazione di un dittatore, ma non con un vero colpo di stato, ma sempre apparentemente eletto ed acclamato democraticamente. E’ qui, in una delle scene-chiave di un film che ne avrà almeno una decina, che Lucas ci regala una delle frasi più significative, facendoci dubitare, come accade spesso durante la visione, di stare vedendo solo un filmone di fantascienza. Ce la fa sussurrare (grazie a uno dei primissimi piani di cui si parlava) direttamente nelle nostre orecchie dalla Senatrice Padmè Amidala, personaggio altrimenti penalizzato in quest’ultimo capitolo da un eccesso di romanticismo e di piagnoneria, ma riscattato da questo momento di consapevolezza in cui la intuiamo praticamente sola pur in un immenso senato gremito in ogni ordine di posti: “E’ così che muore la libertà. Sotto scroscianti applausi”.
Star Wars - Episodio III -
La vendetta dei Sith [Star Wars: Episode III - Revenge of the Sith],
di G.Lucas |