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"Più vita!", per gli angeli in America di Ilaria Scala - 1/1/2005 E' triste la vita a New York City nel 1985, quando la psicosi AIDS è appena cominciata e si diffonde democraticamente tra persone dei più diversi strati sociali. E' triste e ingiusta, la vita, per un gruppo di personaggi uniti loro malgrado dal destino. Pryor si scopre affetto dal virus HIV e per questo viene abbandonato dal fidanzato Lou, incapace di affrontare il degrado fisico della malattia. Un potente e spregiudicato avvocato (Al Pacino) muore di AIDS nello stesso ospedale, solo con i suoi rimorsi travestiti da fantasmi, ma senza perdere, fino all'ultimo respiro, la rabbia e l'aggressività che lo hanno contraddistinto tutta la vita, e a cui deve il suo successo. Una giovane coppia di Mormoni si sfalda alla scoperta dell'omosessualità del marito; la madre di quest'ultimo (Meryl Streep) corre in loro aiuto dalla provincia, con il suo carico di convinzioni ottuse e cieca fiducia nelle tradizioni. Poiché il figlio scappa di casa per non incontrarla, ella si prende cura della nuora, donna fragile imbottita di valium e di sogni infranti, che, trascurata dal marito, non si è mai ambientata nella metropoli. Intanto, mentre gli uomini vagano nella confusione e nel dolore, gli angeli invadono la Terra, fuggiti dal paradiso dove Dio, deluso dagli uomini, li ha abbandonati, e intenzionati a trovare un profeta che lo faccia tornare, raddrizzando il corso degli eventi umani e cosmici. Sceneggiato per la televisione da Tony Kushner sulla base di una sua pièce teatrale e girato con passione da Mike Nichols, Angels in America raduna un cast d'eccezione per un affresco cosmico-religioso, a tratti pasticciato e grottesco, con momenti di poesia alternati ad altri di ironia raggelante. Con oltre cinque ore di ritmo serrato, dialoghi surreali e intimisti, rabbiosi e riflessivi, il film trova la sua forza dirompente nello scontro di anime diverse, ciascuna portatrice della propria solitudine e della propria incomunicabilità. La trama è un continuo cercarsi senza trovarsi, imbattersi gli uni negli altri senza riuscire a comprendersi, sfiorarsi senza mai toccarsi davvero. A sfondo dell'allegoria c'è una New York cupa e gigantesca, ancora una volta scelta a rappresentare il crogiolo del mondo occidentale. E di contorno ci sono incendi e metamorfosi, canzoni romantiche e urla belluine, donne alate che sfondano il soffitto guaendo contro le umane miserie e il mal di piedi, fantasmi di avi settecenteschi e condannati a morte, la ricerca dell'Antartide dentro un frigorifero. Oggi che le metafore sono state usate tutte, e tutti i simboli hanno perso il loro senso, forse il modo più moderno per rappresentare un angelo in un film è il modo più vecchio: appeso al soffitto in abito da sera, con un paio d'ali da un quintale ciascuna, e l'aria di chi non si sente per niente a proprio agio. Difficile dire, alla fine, se sia più opprimente il sogno o la realtà. Facile convenire, alla fine, che l'unica morale possibile sia "Più vita!", che non vuol dire più felicità, più salute o più amore, ma "più vita" e basta: unici rimedi alla sofferenza, sono la condivisione e l'empatia con poche persone affezionate, contro l'ipocrisia di ogni vana illusione.
Angels in
America [Angels in America], di M. Nichols |