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Il Sergente

di Lucia Falzari - 19/2/2005

In questi mesi Marco Paolini sta girando i teatri d’Italia con un nuovo spettacolo raccontato, Il Sergente. Per il “grande pubblico” questo attore bellunese è diventato famoso per il suo racconto sulla tragedia del Vajont, più volte portato in prima serata addirittura dalla televisione, e per I-TIGI canto per Ustica, oltre che per alcuni “quadri” realizzati per l’ultima serie di Report (RaiTre).

Ovviamente non s’è occupato solo di tragedie e di denuncia, ma sicuramente quel che accomuna i lavori di Paolini è la memoria. In questo caso l’ispirazione è arrivata da Il Sergente nella neve, narrazione autobiografica di Mario Rigoni Stern (a cui Paolini dedica lo spettacolo) su un momento della campagna di Russia della seconda guerra mondiale.

L’incipit vuole la scena aperta, una scenografia essenziale nel cui baricentro sta una grande carta geografica, su cui l’attore indicherà via via i luoghi dell’azione. Il filo è duplice: da un lato c’è il racconto del Sergente Rigoni, e dall’altro l’uomo che oggi ripercorre quegli stessi tragitti alla ricerca di una traccia, dei sapori e degli odori, delle sensazioni che lo riportino a quell’inverno del ’42-’43, come una madelaine alla verza. I due fili si intrecciano e si divincolano, l’attore guarda il giovane alpino riflesso nello specchio e viceversa; dalle tane Paolini/Rigoni tira fuori i suoi compagni di trincea e i loro fantasmi, mentre mangiano, mentre rischiano di impazzire per il gelo, mentre sparano ai russi che violano il confine del grande Don. Mentre muoiono squarciati dall’artiglieria nemica, per mano di quegli stessi soldati a fianco dei quali si troverà a dividere una gamella di latte e miglio…

Lo stile della recitazione del nostro è ben noto, ed è sempre quello. A mio avviso, però, stavolta accusa un po’ (tanto) i colpi dell’usura, e inciampa in una serie di cadute di stile che ahimé finiscono col banalizzare alcuni momenti. Perché i gatti che restano come unico cibo devono essere quarantaquattro? Perché – al di là del fatto che Rigoni è veneto - deve continuare a infarcire la narrazione con gli stessi detti e intercalare veneti con cui aveva condito quasi tutte le altre sue rappresentazioni (USTICA inclusa) e con modi di dire che, per quanto travestiti con miseri calembour, rischiano di ridurre la distanza fra la scena teatrale e quella televisiva? Perché ripetere l’escamotage della carta geografica per l’ennesima volta? Forse una risposta può stare nella durata dello spettacolo. Per far sì che un pubblico resista per ben più di due ore (senza intervallo) davanti a un monologo o si propone qualcosa di talmente nuovo, stupefacente e imprevedibile, oppure si deve ricorrere a delle bolle d’aria che facciano respirare non solo l’attore, ma anche lo spettatore; in questo caso però, occorre essere ben consapevoli dei rischi che si corrono, ma temo che stavolta il buon Paolini non ce l’abbia fatta e si sia lasciato prendere la mano da quell’autocompiacimento che oramai gli si legge in faccia fin dall’entrata in scena. Peccato.

Non si uccidono così anche i cavalli... ehm, pardon, gli spettatori?

 

Il Sergente - dedicato a Mario Rigoni Stern, di e con Marco Paolini
Rimini, 16 Febbraio 2005, Teatro E. Novelli

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