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Le eroine della maternità 'istantanea'

di Ilaria Scala - 14/11/2009

Che io abbia appena avuto un figlio non c'entra: le cose che sto per scrivere le ho sempre pensate. L'occasione di rifletterci su non è data dal mio attuale congedo di maternità, bensì dall'ennesima dichiarazione dell'ennesima donna pubblica che pare vergognarsi di non essere un uomo.

Anche la 'ministra' Mariastella Gelmini, nemmeno un quarto d'ora dopo aver annunciato il suo stato di gravidanza, si è affrettata a tranquillizzare i colleghi (maschi?) e il Paese (maschio?) con la promessa che non starà a casa "neanche un giorno". Che non deluderà il capo del governo (maschio. E che maschio!), che le ha affidato il delicato compito di riformare la scuola e l'università (compito che nessun altro nel pianeta sarebbe in grado di svolgere, evidentemente). Che non interromperà il suo lavoro, che per lei conta quanto suo figlio (maschio?), che naturalmente conta tantissimo.

Sarà, ma a me queste dichiarazioni fanno un po' sorridere, un po' pena e parecchia rabbia.

Mi fanno sorridere perchè a pronunciarle sono quasi sempre donne 'in carriera' alla prima esperienza come mamme, ancora ignare di quanto avere un figlio sia, per la vita di una donna, meraviglioso e devastante. E' possibile, avendo molti aiuti, limitare al minimo i giorni di assenza dal lavoro. Ma non stare a casa "neanche un giorno" è - fisicamente, e direi anche emotivamente - im-pos-si-bi-le. Le nostre eroine farebbero meglio ad evitare questi proclami 'auto-propagandistici' (almeno nelle loro intenzioni), se non vogliono apparire ridicole.

Mi fanno pena perchè, dopo il parto, evitare l'interruzione delle proprie attività abituali è, oltre che impossibile, anche un po' triste. Occuparsi di un neonato - ossia di un essere vivente che non sa fare niente da solo, neanche dormire, e che dipende in tutto e per tutto da chi si occupa di lui - richiede un impegno continuo, 24 ore su 24, e una concentrazione totale, che non lascia spazio a nessuna altra attività (nemmeno al nutrirsi; figuriamoci al lavorare). Vuol dire che bisogna scegliere: o ci si occupa del neonato o si fa altro. E fare altro, almeno per i primi mesi, priva la madre di un'esperienza unica, che gli uomini stessi, almeno quelli più empatici e vicini al comprenderla, ci invidiano. Peccato doverci rinunciare, per chi vi è obbligato. Le nostre eroine, che solitamente non vi sono obbligate, ci fanno pena perchè, senza neanche sapere cosa si perdono, pensano che promettere di rinunciarci le renda più forti e gradite ai maschi.

Ma queste dichiarazioni mi fanno rabbia, soprattutto. Primo, perchè offendono tutte le donne che figli non possono averne (per motivi di salute, di fertilità, per la mancanza di un compagno o per motivi economici). Secondo, perchè offendono tutte le lavoratrici che non possono permettersi il congedo di maternità, che è - in anni di crisi e precariato - un privilegio e un lusso. Terzo, perchè comunicano al mondo (alle donne, che sono tentate di crederci, e agli uomini, che ci credono volentieri), che la gravidanza sia una malattia, che l'interruzione che ne deriva sia una debolezza, un tradimento degli impegni presi, una sorta di piccolo fallimento, un gesto di egoismo individuale da cui riscattarsi promettendo assenze ridotte al minimo e nottate di lavoro per recuperare il tempo (inevitabilmente) perduto. E invece è proprio il contrario, signore mie. Fermarsi a fare un figlio, oltre che una bella esperienza per chi sceglie di affrontarla, è anche un gesto di grande altruismo verso la società, che si arricchisce di un nuovo cittadino (e di un nuovo contribuente, provvisto di codice fiscale dall'età di giorni 3, ancor prima di avere una carta d'identità e un ombelico come si deve) grazie alla rinuncia temporanea di sua madre al proprio ruolo nella vita lavorativa, grazie all''interruzione' tanto temuta dalle nostre eroine.

Che poi, anche il corollario "il lavoro è importante quanto il figlio", è un'ipocrisia bella e buona, da lecchina del capo. Ormai neanche i papà più moderni (sarà la crisi?) arrivano a dichiarare tanto. Provi a guardare suo figlio negli occhi dopo che sarà nato, madama la ministra, e poi ce lo dica di nuovo, che la sua riforma della scuola e dell'università è importante quanto lui.

Non è il lavoro ad essere importante quanto un figlio. E' la nostra Persona, cioè i nostri interessi, i nostri sentimenti, le nostre relazioni, le nostre passioni, il nostro corpo, i nostri pensieri, e quindi sì, anche il nostro lavoro, che possono - anzi, devono - essere importanti quanto un figlio. Sai che novità. E' la sfida di ogni madre, riuscire a tener tutto in equilibrio.

Da una donna pubblica, invece che promesse insensate e offensive, ci piacerebbe ascoltare, una volta tanto, una dichiarazione di ignoranza ed umiltà: "Non so cosa sta per succedermi, ma so che farò del mio meglio. Se sarà necessario, mi farò sostituire e mi impegnerò perchè il lavoro fatto fin qui non vada perduto. Il mestiere che sto facendo potrà farlo qualcun altro, per un po'. Ma il mestiere che vado a fare, per un po' e forse per tutta la vita, potrò farlo soltanto io."

 

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