editoriali

 

L'Aquila era bella

di Alessandro Borgogno - 21/4/2009

Ho dei ricordi straordinari collocati fra le strade e le montagne de L’Aquila. Ho una casa di famiglia fra quelle montagne (ora anch’essa terremotata, non so ancora quanto), a una trentina di chilometri dal capoluogo, e da quando avevo circa quattordici anni conosco quei posti e anche quella città. Ci sono stato molte volte. Fra queste ho alcuni ricordi, diciamo pure giovanili, particolarmente cristallini. Pieni di luce e di aria pulita. Un’estate, trascorsa con altri tre amici, girando fra quei monti e quelle valli a cavallo di quattro biciclette. Ricordo una follia che fu proprio quella di partire una mattina dal paesino sull’Altopiano delle Rocche per arrivare fino a L’Aquila, trenta chilometri più a nord ma soprattutto circa settecento metri più in basso. Senza preoccuparci di come avremmo fatto a risalire su, per trenta chilometri di tornanti. Ricordo la discesa in bici, sfrecciando lungo il fianco del massiccio con tutta la valle verde ai nostri piedi, costellata di piccoli paesi, di castelli, di case magnificamente arroccate sugli spuntoni di roccia. Ricordo una foto con autoscatto davanti alla splendida basilica di Collemaggio, con Dario che dopo aver fatto partire il meccanismo della sua Olympus (meccanico, quello che faceva bzzzzzzzzzz) iniziava a correre come un matto per arrivare da noi che stavamo già in posa, e mettersi in posa anche lui prima che l’otturatore facesse cla-clack, perché per poter prendere anche tutta la basilica la macchinetta la dovemmo mettere lontana, in mezzo al prato. Non ricordo neanche se l’ho più vista quella foto. Se era venuta bene o se Dario era finito immortalato mentre era ancora di spalle correndo come un centometrista. Ricordo le richieste di indicazioni sul capolinea dei pullman che avrebbero potuto riportarci su, e poi la mitica sceneggiata fatta a Piazza San Bernardino (quante volte vista distrutta in questi giorni nei telegiornali), dove era appunto il capolinea, per convincere i già convinti autisti abruzzesi a farci caricare le biciclette dentro i pullman, con la scusa che io mi sentivo male e non potevo tornare su in bici. Ricordo la scena di me che facevo il gesto di aiutare a caricare le bici nella pancia del pullman e Dario in un furore recitativo shakespeariano che mi urlava “non rompere il cazzo tu, stai buono che stai male…”. Sceneggiata pietosa, assolutamente non credibile, ma che aveva divertito tutti. Eravamo risultati simpatici, e ci hanno riportato su volentieri. Gente sincera, gli abruzzesi. Gente vivace e intelligente, gli aquilani. E poi un inverno, anzi proprio un Capodanno. Sempre dal paesino di cui sopra, una follia decisa sul momento. Prendiamo il pullman e scendiamo proprio la sera del 31 a L’Aquila, senza la più pallida idea di come avremmo passato la notte. L’anno non lo ricordo ma è meglio non indagare. Ricordo però che avevamo praticamente niente soldi ma io la chitarra, Bruno i bongos e Roberto l’armonica. Ricordo una performance irresistibile sotto i portici del Corso. Una formidabile versione di Sleep Slidin’ Away di Simon e Garfunkel e una irresistibile Samarcanda di Vecchioni che attirò un capannello invidiabile intorno a noi, trascinò la folla a battere le mani a tempo, e soprattutto ci riempì il fodero della chitarra aperto sul marciapiede di tanti simpatici soldini. Ricordo che con quei soldi ci facemmo “il cenone”, cioè andammo a mangiare in una trattoria in una delle traverse del Corso, in un’epoca e ad un’età nelle quali mangiare fuori non era cosa comune. Ricordo poi un altro pullman che ci portò fino a Pescara (ne avevamo di energie…) e alla fine lo scoccare della mezzanotte sul lungomare adriatico, in una atmosfera più felliniana di qualunque film di Fellini. Ricordo ancora oggi, comunque, che al di là del momento in cui si incontrarono le lancette per me quel Capodanno è stato a L’Aquila, sono stati quei portici che risuonavano delle nostre note nella fredda serata appenninica. Quei portici che ho rivisto infinite volte questi giorni, quasi irriconoscibili, fra calcinacci e strade deserte. E’ stato quella trattoria nel vicolo, che chissà se esisteva ancora fino a dieci giorni fa e chissà se il palazzo stesso dove si trovava ora è ancora in piedi o non esiste più.

Detesto chi continua a dire in queste ore e in questi giorni che “questo non è il momento delle polemiche”. E’ proprio questo invece, perché è nei momenti di maggiore emozione che si può anche suscitare il maggiore sdegno, la maggiore reazione, la più forte protesta per tutte le cose che non vanno, che non sono andate, per i ritardi, per gli abusi, per la cementificazione selvaggia e criminale, per la mancanza totale di prevenzione che hanno, quelle sì, provocato la gran parte di morti e di devastazioni. Perché se queste questioni non si sollevano ora, e poi non si mantiene alta la rabbia, fra qualche tempo, fra pochissimo tempo, di tutto ciò non si parlerà più.

Dico questo perché questo mio articolo non sembri solo una concessione ai ricordi e al dolore che si unisce al coro quasi unanime che abbiamo ascoltato in questi giorni. Non lo è. E’ invece un doloroso grido di rabbia. E’ il tentativo di riportare alla luce dei ricordi che sono stati sì sbriciolati e sepolti sotto tonnellate di macerie, ma non da una scossa di terremoto, bensì dalla sempre infinita arroganza degli uomini, dalla loro colpevole indifferenza, dalla totale mancanza di rispetto per ogni regola, per ogni diritto, per ogni dignità, tutte mancanze che, come poi puntualmente si scopre in queste tragiche circostanze, non sono altro che totale mancanza di rispetto per la vita umana.

Ho tentato di raccontare queste cose, sparse e senza nessuna logica narrativa, perché se a me, che non sono abruzzese e non ho avuto morti in famiglia né proprietà devastate, questi piccoli ricordi legati a quei luoghi aprono ferite mai più rimarginabili, solo così posso sperare di dare il mio misero e insignificante contributo alla comprensione delle ferite devastanti che invece devono essersi aperte in tutti coloro che davvero hanno perso qualcosa, o tutto, la notte dello scorso sei aprile ai piedi del Gran Sasso.

Piango di dolore per L’Aquila e l’Abruzzo, terra superba popolata di gente magnifica, che mai mi ha fatto sentire straniero o estraneo alle sue meraviglie.

Piango di rabbia per l’Italia, ancora una volta colpevolmente incapace di rispettare se stessa, la sua gente migliore, e le sue cose più preziose.

 

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