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La dittatura del lieto fine

di Alessandro Borgogno - 23/10/2007

Essendoci cimentati in tempi non sospetti nella rievocazione di una famosa storia siciliana, arrivando persino a fare una traduzione in prosa della ballata popolare, a riportarne un servizio fotografico e inevitabilmente ad evocare il famoso sceneggiato tv degli anni 70 dedicato a questa vicenda, non possiamo esimerci almeno da qualche commento alla nuova versione televisiva andata recentemente in onda de “la Baronessa di Carini”.

Oggigiorno non si parla più di sceneggiati ma di “fiction”, e infatti una delle prima differenze sta probabilmente lì, perché proprio di fiction si è trattato, in tutto simile alle altre, di vari generi e argomenti, che si producono ormai per la tv, con tutti gli standard di fotografia, sceneggiatura e recitazione comuni a tutte le altre, che siano storie d’amore ottocentesche, rievocazioni di santi od eroi più o meno contemporanei, storie di guerra o di delitti.

Togliamoci subito il pensiero elencando le poche cose apprezzabili del nuovo film-tv.

Le ambientazioni sembrano essere state scelte con discreta cura, molte ville siciliane originali e comunque molti luoghi reali teatro della vicenda. Un ottimo Lando Buzzanca. Un Enrico Lo Verso appena sopportabile con l’attenuante di doversi confrontare, rispetto al vecchio sceneggiato, con il migliore Adolfo Celi di sempre. Una certa cura nel rispettare la vicenda originale del ‘500 e le testimonianze storiche (lettere, atti dei tribunali) che ne permettono la ricostruzione. Ininfluente lo spostamento della vicenda dal 1812 al 1860, solo meno interessante perché mette in campo Garibaldi semplificando molte situazioni politiche e sociali dove invece l’originale andava a scavare in un periodo più oscuro e più ambiguo della nostra storia nazionale.

Temo che sia tutto. Per il resto solita fotografia patinata e sfoggio di carrozze e costumi alla “Rivombrosa”.

Per quanto riguarda la narrazione, fastidiose semplificazioni sempre all’insegna dell’assunto secondo cui il pubblico odierno sia più stupido e meno disposto all’attenzione rispetto a quello di trent’anni fa (bah..), e inserti modernisti abbastanza patetici tipo fermi-immagine in bianco e nero e rapide dissolvenze riprese tali e quali dai telefilm N.C.I.S.

E poi il disastro. Il lieto fine.

Il finale originale, tragico e spietato, rappresentava e rappresenta tuttora non soltanto la massima originalità della storia, uno shock spettacolare, la chiusura di un circolo senza uscita e la garanzia di un effetto che proseguiva ben oltre la parola fine, ma era ed è tuttora il vero senso e significato di tutta la storia. E’ il suggello drammatico e assolutamente inevitabile di una vicenda che trova il suo vero essere nell’ineluttabilità del destino, nell’impossibilità dei protagonisti di sfuggire alla tragedia, e in questo riesce anche a rendere ben più profondi e interessanti tutti gli altri dettagli della vicenda, la vigliaccheria profonda del barone criminale e il suo patetico opporsi con la sua crudeltà ad un destino storico che comunque prima o poi finirà per sovrastarlo.

Tutto spazzato via, bruciato e dissolto in un finale che si consuma con un ridicolo duello da moschettieri fra il barone e il giovane eroe (spariti gli scagnozzi del barone, i suoi personalissimi “bravi”, che eseguivano i veri crimini e che rappresentavano in modo esemplare i meccanismi di esercizio del potere e della sopraffazione allora come oggi), seguito da una patetica fuga che si azzarda perfino a dare un senso nuovo alla famosa mano insanguinata sul muro trasformandola da testimonianza agghiacciante di un delitto a pretestuosa indicazione di un passaggio segreto che permette la salvifica uscita dei protagonisti dal castello in fiamme. E così anche il limite del ridicolo pericolosamente sfiorato per tutta la durata viene ampiamente scavalcato d’un colpo.

Ma non è comunque abbastanza, perché sceneggiatori e regista ci regalano anche la coda finale con i due innamorati su un prato, finalmente liberi di consumare il loro amore dopo la morte del cattivo Barone, così polverizzando anche gli intriganti e sottili meccanismi di colpa e condanna che comunque i personaggi tutti portavano con sé. Finale perfino moralmente discutibile, giacché vuole annullare e nascondere, in verità riuscendoci malissimo, le colpe e le responsabilità dei protagonisti, lei comunque infedele al marito e ambigua trascinatrice del giovane verso la tragedia, lui comunque doppiogiochista e colpevole di orgoglio e presunzione nel voler vincere la sua battaglia non solo per amore ma per il riscatto della sua casata.

Insomma una vera catastrofe, consumata sull’altare della presunta necessità di un lieto fine a qualunque costo, nella sempre più frequente scarsa considerazione nei confronti degli spettatori, evidentemente considerati dagli autori e dai produttori incapaci di accettare dubbi, ambiguità, soluzioni men che banali, minime profondità di pensiero e di intreccio, minimi inviti alla riflessione. Ovvio che tutti questi limiti e cotanta pochezza di spirito e di pensiero non siano affatto da cercare nel pubblico, ma proprio in chi così insiste a considerarlo.

 

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