editoriali

 

Bye Bye Cannes...

di Alessandro Borgogno - 24/4/2007

Prendo spunto da uno dei tanti temi dibattuti la mattina alla Radio da Il Ruggito del Coniglio, dove molto spesso, con la leggerezza e la simpatia che è propria dei due conduttori, si dicono anche cose non del tutto superficiali.

Le considerazioni provenivano a seguito della notizia che per il prossimo festival di Cannes non è stato selezionato neanche un film italiano, almeno in concorso. Notizia che, come spesso accade, ottiene ora risonanza per via del numero "zero", quando altri anni magari la presenza anche di un solo film nazionale, ugualmente significativa, passava per meno tragica grazie a questa singola e sparuta rappresentanza, quasi sempre un’eccezione nel panorama complessivo.

Gli scherzi e le battute dei “conigli” ruotavano intorno ad una ipotesi che mi sento di sposare totalmente e che provo qui ad illustrare in modo appena più articolato.

Il Cinema, come disse magistralmente Truffaut, è nato e cresciuto per “rendere più intensa la vita”, concentrare eventi magari sparsi negli anni, in pochi minuti o poche ore, amplificare le emozioni e farci vivere e partecipare di ciò che la vita reale non ci permette tanto facilmente di sperimentare. Basti pensare ai classici film di avventure degli anni Trenta, ambientati spesso in luoghi esotici che il pubblico aveva così modo di vedere per la prima volta e dove probabilmente non sarebbe mai potuto andare.

In altre parole, il Cinema nasce, ed ha il suo specifico, nel superare la realtà che ci circonda per trasfigurarla, per farcela guardare da una visuale inedita, per rendercela più intensa e più emozionante.

La tendenza del cinema italiano, da diversi anni ormai, è invece esattamente quella opposta. E’ restare al di sotto della realtà. Non c’è cinematografia, almeno di quelle che ci è dato conoscere senza andarle a cercare nei cineclub nascosti nelle cantine, se ce ne sono ancora, che sia così programmaticamente al di sotto della realtà quotidiana come la nostra. Si raccontano ormai quasi solo le storie del vicino di casa, ambientate nel nostro quartiere (e fin qui niente di male, lo faceva anche De Sica), ma con una vocazione al sottotono, alla paura di esagerare, al contenimento dei sentimenti e delle emozioni, al minimalismo non come strumento di elevazione a concetti magari più ampi o più profondi, ma come puro esercizio di stile, di misura, di limite.

Siamo ormai pieni di normali storie d’amore, di consueti rapporti fra persone, di lucchetti appesi ai lampioni e di impercettibili spostamenti del cuore, sempre senza che mai accada qualcosa di realmente forte, significativo, tragico o violentemente comico, e dove il massimo del turbamento e dello sconvolgimento di una situazione è scoprire che un marito è omosessuale o avere degli sbandamenti per qualche giovane donna prima di un matrimonio.

Il cinema italiano ha una tendenza straordinaria a restare al di sotto della più banale realtà, anche di quella della cronaca. Basta guardare un telegiornale di un giorno qualsiasi dell’anno per trovare molti più conflitti, omicidi, brutalità, situazioni comiche, emozioni estreme spesso al limite del fastidio, di quanti se ne trovino nel nostro cinema (rare eccezioni sono Romanzo criminale o film simili, che devono però farsi forza delle storie vere e degli accumuli di materiale quasi storici per non essere tacciati di esagerazione o eccessiva spettacolarizzazione).

Perché allora stupirsi se i selezionatori di un festival del Cinema internazionale non trovano film italiani da presentare in concorso? Si aspettano di vedere dei film, e si trovano davanti ad una serie di mini soap-opera o di storie che normalmente si sentono raccontare nelle trasmissioni televisive del pomeriggio. Pensano “avranno sbagliato concorso, questo è un festival del Cinema”, mettono da parte e passano al film successivo.

 

Tutti gli editoriali