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E naturalmente io invece dico...

di Alessandro Borgogno - 1/3/2007

Dice bene il nostro Direttore, ed è facile profeta a presagire che non tutta la redazione sarà d’accordo con quanto scritto sulle Unioni di fatto, o Convivenze, o come le si vuol chiamare. Per esempio io credo di non essere d’accordo neanche con le virgole del suo editoriale, se non in tutti i contenuti che lo animano almeno nell’effetto finale che ottiene.

Al di là dell’aspetto squisitamente personale, dato che da ex-convivente avendo un figlio e avendolo prontamente riconosciuto come tale non mi sarebbe dispiaciuto veder riconosciuto anche qualche mio e suo diritto anziché solo i doveri (qualcuno lo sa che in questo caso per il fisco i redditi dei genitori vengono comunque cumulati? Questo per chi dice che questo disegno di legge darebbe ai “non sposati” solo diritti e nessun dovere. E forse, almeno nel caso di genitorialità è anche vero, per il semplice motivo che i doveri ci sono già tutti, anche per i figli, e di diritti ancora ben pochi).

Personalmente partirei da un dubbio che colpisce per primo il sottoscritto, proprio in virtù dell’umiltà di cui parlava il Direttore, che io definirei anche programmatica. Il dubbio è questo: se si vanno a guardare le altre legislazioni europee ci sono diversi paesi insieme all’Italia che ancora non hanno alcun riconoscimento legale per le convivenze o coppie di fatto. Se però si scorre l’elenco, si scopre che in nostra compagnia ci sono (scusate se li dico tutti): Albania, Bulgaria, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Cipro, Estonia, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Macedonia, Moldavia, Monaco, Montenegro, Polonia, Romania, Russia, San Marino, Serbia, Slovacchia, Turchia e Ucraina.

Insomma, i paesi Europei a cui spesso giustamente guardiamo come riferimento culturale, come avanguardie, come paesi moderni, e cioè Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna e così via, hanno tutti già una legislazione in merito, migliore o peggiore che sia. Noi no. Questo qualche dubbio non ve lo fa venire? A me sì.

Poi c’è la questione della Chiesa Cattolica, e almeno su questo io e il Direttore siamo più vicini,e purtroppo, che ci piaccia o no, è una questione fondamentale perché il dibattito è inquinato dalle entrate a gamba tesa della Conferenza Episcopale Italiana e del Papa in prima persona. E ben poco senso ha continuare a ripetere, come si sente di continuo dai più svariati pulpiti, che la Chiesa ha il diritto di manifestare la propria opinione in merito, prima di tutto perché, come anche i bambini capiscono, una cosa è esprimere una legittima opinione e un'altra cosa è intervenire dettando criteri ai legislatori di uno Stato straniero, e poi perché questi paladini della legittimità di opinione d’OltreTevere non ci spiegano mai per quale motivo non ci sono state tutte queste “espressioni di opinione” nel caso degli altri paesi europei che hanno legiferato in tal senso (per di più con leggi ben più minatorie della “famiglia tradizionale” di quanto non sia il nostro timido decreto legge all’italiana). Qualcuno mi spiega perché neanche in Germania, che è il paese di Papa Ratzinger, c’è mai stata alcuna presa di posizione così dura al momento della legiferazione? Perché nessuno si è adoperato per far cadere il governo tedesco? O quello francese? O quello spagnolo di Aznar? (se qualcuno non lo ricordasse, la legge sulle unioni civili in Spagna l’ha fatta la Destra, e non quel comunista di Zapatero). Da noi invece questo è possibile e si fa, perché mica crederemo ancora che il governo Prodi sia andato in crisi per la politica estera, vero ragazzi?

E, a proposito di governo, ma questo solo per inciso, in realtà non è affatto vero che i cosiddetti DICO sono “usciti dal programma”, perché il disegno di legge è già stato varato ufficialmente dal Consiglio dei Ministri ben prima della pseudo-crisi ed è già stato affidato alle commissioni parlamentari, quindi non è affatto sparito, e che piaccia o no se ne dovrà discutere comunque. Cosa che mi sembrerebbe tra l’altro semplicemente civile, perché almeno discuterne dovrebbe essere il minimo per un paese normale, e vedere chi gioisce all’ipotesi che l’argomento non si debba più neanche discutere è veramente desolante.

Ma soprattutto, tanto per non eludere il merito della questione, trovo davvero riduttivo e anche pericolosamente superficiale ridurre la questione alla possibilità di riconoscimento delle coppie omosessuali, perché la faccenda non si esaurisce affatto lì. Ovvio che, se si decide di riconoscere determinati diritti e doveri, a quel punto lasciare fuori le coppie dello stesso sesso sarebbe pura discriminazione e perciò inaccettabile, ma altro è arrivare a pensare che tutto questo sia stato messo in piedi solo per riconoscere le coppie omosessuali.

E poi si può sapere perché da queste considerazioni viene sempre tenuto fuori il fatto che la dicitura “anche dello stesso sesso” significa che tutto ciò varrebbe anche per fratelli, sorelle, persone anziane? Perchè questo aspetto non viene mai considerato nella sua accezione di estensione dello stato sociale e invece deve sempre essere considerato una specie di scusa per coprire presunti matrimoni omosessuali? Perché non viene molto più semplicemente ed ecumenicamente considerato una autentica generalizzazione di un concetto che anziché catalogare ciò che non è catalogabile allarga i diritti a più categorie possibili cercando di includere tutte quelle che potrebbero necessitare di aiuto sociale? Si tratta di un tentativo di regolamentazione che non viene fatto né solo per le sorelle anziane né solo per gli omosessuali né solo per le coppie eterosessuali che non vogliono sposarsi, ma più semplicemente per tutti, perché “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” ed è inoltre “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ l’articolo 3 della Nostra carissima Costituzione.

E poi, al di là dei principi, basterebbe da sola Rosy Bindi, per la donna che è e per la sua storia personale, a fugare ogni dubbio residuo sulla possibilità che tutto questo serva solo a mascherare i matrimoni omosex.

Ma davvero qualcuno pensa che proprio Rosy Bindi si sarebbe così esposta e si sarebbe data così tanto da fare a cercare mediazioni solo per riconoscere i “frocimoni” ? E non piuttosto perché, da vera politica laica anche se di fede fortemente cattolica ha visto ben chiara la possibilità di rispondere in qualche modo alla necessità di dare almeno qualche diritto e qualche garanzia a persone che a vario titolo si trovano in situazioni di debolezza e che lo Stato normalmente ignora, quando non penalizza?

La mia impressione è che si cada sempre più facilmente in meccanismi falsati e vagamente reazionari, che finiscono per far scrivere forse perfino in modo inconsapevole anche al nostro Direttore “chi glielo fa fare in cambio di”, “molto meno sforzo per poco meno in cambio”, “concorrenza” fra unioni civili e matrimoni civili. Ma chi ha deciso che si tratta di una gara? Che se si danno dei diritti a qualcuno si tolgono ad altri? Che si debba necessariamente ripagare uno sforzo (ma se è uno sforzo allora lo si fa per convinzione o per cosa?), o contrapporre chi fa uno sforzo maggiore a chi ne fa uno minore? (“Che lo sforzo sia con voi!” Mel Brooks, Balle spaziali). Qualcuno a un certo punto ha trasformato, volutamente e colpevolmente, questa questione in un gioco di contrapposizioni di una forma contro un'altra e tantissimi, quasi tutti, ci cascano di continuo.

E guardate che sarebbe assai facile fare il gioco contrario e chiedersi, ad esempio, perché mai una persona che vive da vent’anni accanto ad un'altra non dovrebbe poter godere di determinati diritti congiunti e invece deve poterlo fare una persona che da cinque minuti ha siglato un matrimonio ufficiale? Ho sentito dire cose tipo “Ma se io vivo trent’anni con mia moglie e poi mi separo e decido di convivere con un’altra donna perché quest’altra dopo soli nove anni - (SOLI nove anni, capito?) - può avere gli stessi diritti dell’altra?" E io invece dico: e il contrario? Perché se una persona convive vent’anni con un’altra e poi impazzisce, molla tutto e si sposa con una nuova, quest’ultima solo perché “sposata” immediatamente può godere di TUTTI i diritti, anche di quelli della ex-convivente, dopo soli 5 minuti dalla firma?

Signori miei, così non si va da nessuna parte.

Se la questione fosse la fede e il matrimonio religioso allora il discorso sarebbe a parte, e giusto sarebbe, ma solo se fosse davvero così, che la questione restasse esclusiva delle coscienze di ciascuno. Se la questione invece è (proprio come la mette secondo me giustamente il Direttore paragonando le ipotetiche nuove unioni di fatto ai matrimoni civili) come e quando si acquisiscono dei diritti e dei doveri nei confronti di altre persone, allora finché la discussione rimarrà in questi termini di schieramenti, di confronti fra una forma e l’altra, di contrapposizione, di meriti e demeriti, di impegni, sacrifici e firme contrapposti a diritti e raccomandate allora rischierà di continuare ad essere puramente e semplicemente una discussione retrograda, reazionaria e anche vagamente razzista, o quanto meno discriminatoria. Reazionaria nel senso di reazione, anche inspiegabilmente virulenta, ad una qualche minaccia non meglio esplicitata; discriminatoria nel senso che il risultato finale è quello di discriminare intere categorie di individui che esistono e che compiono delle scelte in piena libertà, che non andrebbero più di tanto sindacate nelle loro motivazioni ma semplicemente valutate nella loro eventuale pericolosità sociale, se ce l’avessero. Il matrimonio in Italia è, più che un istituto, una Istituzione quasi sacra anche dal punto di vista civile, ed è per di più sancito in modo per nulla ambiguo direttamente nella Costituzione (art.5). Niente da dire su questo. E pensare a modificarne la natura per estenderlo o cambiarne il senso per includere anche le nuove situazioni sociali che non erano previste è, prima ancora che giusto o ingiusto, poco verosimile. Significherebbe semplicemente imboccare una strada, soprattutto in Italia, che congelerebbe ogni possibilità di riconoscimento anche minima fino a data da destinarsi.

Semplicemente per questo allora la via, pragmatica come deve essere una via legislativa, sta nel cercare il modo di riconoscere almeno un’altra forma di unione fra due individui che possa essere aggiunta, senza togliere né modificare nulla a quella già esistente. Si può discutere su quali diritti sia giusto concedere e quali no, ma mi sembra davvero assurdo discutere se sia giusto o no riconoscere nuove situazioni sociali che esistono e per di più aumentano. Di fronte a ciò, a mio parere lo Stato non deve occuparsi del perché o delle motivazioni di ciascuno o di chissà che altro (sarebbe come se volesse occuparsi per legge dei motivi per cui qualcuno è eterosessuale e qualcuno omosessuale), deve prendere atto della loro esistenza, capire se si tratta di situazioni sociali pericolose per la democrazia o no, e nel secondo caso decidere se è il caso di riconoscerne l’esistenza e quindi assegnargli un qualche tipo di valenza sociale oppure ignorarle, cioè considerarle “non esistenti”, che è quello che accade ora. I motivi per cui una, dieci o un milione di coppie scelgono convivenze o altre forme ancora sarà oggetto di studio psicologi, sociologi e anche economisti, non oggetto del lavoro né tantomeno fonte di ispirazione per un legislatore.

Uno Stato civile, laico e democratico, a mio modestissimo parere dovrebbe avere come principale obiettivo quello di fornire a tutti una base minima comune di diritti e doveri nella quale anche le persone più diverse per origini, cultura, convinzioni o altro si possano comunque riconoscere, e non ignorare le novità sociali o cercare comunque di incasellarle in scomparti già esistenti ottenendo il solo risultato di creare forzature, contrapposizioni e aumentare drasticamente le divisioni fra chi è favorevole a qualcosa e chi è contro.

Fra le esigenze, le necessità, i desideri e i diritti di tutti dovrebbe cercare un minimo comune denominatore, e non un massimo comun divisore.

 

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