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Due dischi, niente di nuovo

di Beppe Giuliano - 15/10/2005

1. All'ovest niente di nuovo

Ogni qualche anno il vecchio Young (se mi si passa il bisticcio) ripone i Crazy Horse, lascia il suo rancho californiano e si trasferisce a Nashville, per incidere un disco “intimo” con l’aiuto di alcuni locali marpioni.

Ha iniziato nel 1972 con Harvest, un disco invecchiato non granché bene, almeno nel giudizio della critica. Però il disco che, negli anni Settanta, l’ha fatto conoscere a quasi tutti noi. Ha replicato un vent’anni giusti dopo, incidendo un disco che segnalava la paternità esplicitamente, Harvest Moon (sul conto si potrebbero ulteriormente aggiungere il Comes A Time della fine anni Settanta, il più recente Silver and Gold, e ancora Homegrown, mai pubblicato e confluito in parte nel confuso American Stars’n’Bars del bicentenario).

Adesso l’ha fatto di nuovo, e pur non battezzando il disco, che so, Prairie Harvest o Harvest Wind, il risultato è scopertamente simile ai predecessori, soprattutto al lavoro del ’92. 'This Old Guitar', per dirne una, suona tal quale alla chitarra del brano che dava il titolo a Harvest Moon.

Comunque il disco si lascia deliziosamente ascoltare. Io confesso un debole per il canadese, e un suo disco sul giradischi lo metto sempre con gran piacere. Il momento migliore trovo che sia, un po’ a sorpresa, uno dei più vivaci, ‘He Was The King’, che è la ‘From Hank to Hendrix’ di questo nuovo ellepì.

2. (Quasi) niente di nuovo neanche a Penny Lane

Ogni qualche anno il vecchio “Macca” sceglie alcune fra le tanti canzoncine composte, se le suona da sé (anche questo disco è tutto suonato e cantato in solitudine, come molti in precedenza, a iniziare dal primo solista, celebre soprattutto perché portava con sé l’annuncio dello scioglimento del gruppo con cui aveva avuto un notevole successo negli anni Sessanta), le pubblica, prepara un video in cui vezzosamente si mostra intento a suonare i numerosi strumenti impiegati (immancabile il basso Hofner, e la ripresa di lui che “picchia le pelli”, questa volta per ‘Fine Line’), e parte per un tour mondiale di successo.

Questo disco si distingue, però, per l’uso di un produttore “terzo”, Nigel Godrich (noto per il suo lavoro con i Radiohead) che si permette, addirittura, di dire al grande Paul che alcune canzoni silly stavano meglio “fuori” dal disco (mi immagino la perplessità british del vecchio Sir di fronte a un’obiezione del genere).

Comunque il disco si lascia deliziosamente ascoltare. Io confesso un debole per il “Macca”, e un suo disco sul giradischi lo metto sempre con gran piacere. Colpisce l’atmosfera nel complesso malinconica che si respira, come se l’età e le cose della vita potessero influire anche sul trascorrere delle giornate di una quasi-divinità. Scelgo fra i tredici brani la delicata ‘Jenny Wren’, la riservata ‘At The Mercy’, la sorniona ‘English Tea’, la conclusiva pianistica ‘Aniway’.

La copertina si accompagna magnificamente al resto del lavoro, e starebbe bene soprattutto nelle dimensioni maggiori dei vecchi cari ellepì.

 

Neil Young, Prairie Wind,
Reprise/Wea, 27 settembre 2005

Paul McCartney, Chaos and Creation in the Backyard,
Capitol, 13 settembre 2005

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