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“Noi non siamo che copertine di libri”

di Alessandro Borgogno - 19/6/2011

Per fortuna ci ha lasciato a 92 anni, quindi i rimpianti sono pochi. Però ci ha comunque lasciato, e quindi il dispiacere è identico indipendentemente dall’età. Senza girarci troppo intorno, Ray Bradbury è stato uno dei più grandi scrittori del secolo scorso. Di sicuro fra gli scrittori americani, ma a nostro giudizio anche ben oltre la narrativa d’oltreoceano. Per chi non lo conosce abbastanza (ed è un peccato) basterà citare il suo romanzo più famoso, Fahrenheit 451, una proiezione assolutamente geniale in un futuro contemporaneamente lontano e vicinissimo dove vengono illustrate con precisione da scienziato le conseguenze possibili del progressivo svuotamento d’importanza della cultura e della lettura. La società raccontata da Bradbury nel suo capolavoro brucia i libri, e li brucia senza distinzione, non per il contenuto eventualmente pericoloso, ma li brucia in quanto tali. Li brucia sistematicamente e con dovizia e perizia degne di miglior causa semplicemente perché ritiene la lettura una distrazione non controllabile dal sistema. Li brucia perché non può controllare il pensiero degli uomini, e la lettura di un libro, un libro qualsiasi, può far partire il pensiero di chiunque verso strade incontrollabili, quindi verso libertà potenzialmente pericolose. Ebbe una fenomenale intuizione, quando scrisse il romanzo nel lontanissimo 1953. Capì che gli altri mezzi di comunicazione e di racconto, alcuni dei quali erano appena nati, erano tutti molto più controllabili nel contenuto e nelle conseguenze rispetto ad una qualsiasi pagina di un qualsiasi libro. E infatti il potere raccontato in Fahrenheit non si preoccupa affatto di radio e di televisione, anzi, le usa a suo piacimento per determinare con assoluta precisione i tempi e anche il tempo libero dei “sudditi”. Il libro no. Non può. Il libro si apre e si legge quando ne abbiamo voglia, quando ci sentiamo ispirati, quando ne sentiamo il bisogno. Per questo è incontrollabile. Per questo va combattuto e va bruciato. Qualsiasi libro, anche i tre moschettieri.

Bradbury, che sapeva benissimo cosa diceva e cosa scriveva, disse più volte che lui non scriveva fantascienza ma fondamentalmente fantasy, cioè storie irrealizzabili. L’unica storia di vera fantascienza che si autoattribuiva era proprio Fahreneit 451, e la sua motivazione era semplice e inesorabile: “perché la fantascienza racconta di cose che possono accadere”.

Allo stesso modo sarebbe fortemente riduttivo, nel ricordarlo, fermarsi al suo capolavoro (tradotto magistralmente in film da un altro genio, Francoise Truffaut, che ne fece il film di fantascienza più singolare e più intellettuale della storia del cinema). Bradbury fu soprattutto un formidabile scrittore di racconti, brevi o lunghi, nei quali riusciva sempre ad instillare un dubbio nelle situazioni apparentemente più cristalline. Spesso in storie che riproducevano con assoluta fedeltà e verosimiglianza il quotidiano più banale e apparentemente scontato. Grande debitore nei suoi confronti è stato ed è tuttora uno dei più grandi contemporanei, Stephen King, che molto ha preso e imparato dal suo modo di raccontare e di insinuare nella normalità apparente il seme del dubbio, dell’inquietudine, del potenziale pericolo. Pericolo spessissimo, se non quasi sempre, tutto mentale e filosofico, sociale in alcuni casi, sempre riconducibile a qualcosa che conosciamo tutti e che tutti possiamo riconoscere.

Straordinarie e indimenticabili le sue Cronache marziane, ma ancora di più alcuni brevi racconti che in poche pagine riescono a costruire storie che costringono il lettore a farsi delle domande. Così una strisciante e misteriosa invasione di marziani ci costringe a pensare che forse dovremmo fare più attenzione ai nostri bambini e ai loro giochi apparentemente inutili e fastidiosi, e che invece di pensare sempre di avere cose più importanti da fare dovremmo ogni tanto guardarli e sforzarci di comprendere il loro linguaggio. Così una missione su Venere gli dà l’occasione di sperimentare cosa accadrebbe alla nostra psiche se davvero ci trovassimo a fare i conti con un clima del tutto diverso dal nostro. Il suo racconto di cosa produce nella mente degli uomini una vita costantemente costretta sotto una pioggia costante e interminabile è un capolavoro di angosciosa riflessione sui nostri limiti fisici e mentali. Così una fermata di un treno in “una città dove nessuno mai scendeva” si trasforma in un illuminante confronto sul significato dell’esistenza e delle convenzioni sociali.

Ci piace pensare, e ne siamo certi, che proprio per ciò che aveva così bene focalizzato nel suo romanzo più famoso, fosse ben cosciente che anche dopo la sua morte i suoi libri avrebbero continuato a vivere e parlare per lui, come per tutti i grandi. E speriamo che la sua straordinaria lucidità e capacità di analisi del presente non lo abbia fatto andare via con troppi brutti pensieri su cosa ci aspetta il futuro.

Di certo non è un caso che proprio lui si è sempre dichiarato diffidente verso i libri elettronici, e pur consentendo negli ultimi anni, la versione elettronica di Farenheit, ha sempre dichiarato di preferire i libri di carta.

Noi abbiamo una nostra idea del perché.

Perché i libri elettronici si possono far sparire con un semplice click. I libri di carta invece li devi bruciare, e in un modo o nell’altro si vedrà sempre il fumo.

 

“Noi non siamo che copertine di libri, il cui solo significato è proteggerli dalla polvere.”

 

Ray Bradbury, 5 giugno 2012